Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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Cap. I Cap. II Cap. III
 
   

I

 

 

Sincero e tranquillo

il tramonto

dipingeva

distratto l’orizzonte,

macchiando qua e là

con pennellate calde di colore.

Camminava,

con andatura molto lenta,

ciondolando verso destra,

poi a sinistra,

rimbalzato d’ali invisibili

in muri di non posso,

e di non devo,

stregato a vagar di senza sosta

e senza meta,

violento nello sguardo

per le ferite acute ed indelebili,

sempre alla ricerca di un qualcosa

che non trovava mai;

quanti ne aveva scrutati,

sopportati,

di tramonti all’orizzonte,

tutti uguali e belli,

quante volte li aveva rincorsi

col suo passo debole e insicuro.

Ed un nuovo occidere

dei tanti,

altro bagliore

che improvviso scompariva,

lasciando quella terra

orfana

del luminoso suo splendore.

Ma il calore avvolgeva i lenti passi,

ed il paesaggio,

scaldato nell’animo,

e corrotto

di un sentir tranquillo

e spensierato.

Aveva imboccato una strada secondaria,

aperta improvvisa

alla sua vista

al di là di un anfratto naturale;

una grotta, forse,

una galleria,

ormai erosa

nella copertura superiore,

ridotta in sorta

di passo a monte,

seppur valle;

le pareti

modellate

da milioni di vermi scultori,

in un intrigo spasmodico

di piccoli cunicoli

e for d’ogni misura.

Le toccò

per assaporar sapore

che pareva sprigionare;

poi la stradina,

volta a sinistra,

direzione del fuoco

in eclissi di collina.

Piccola,

un viottolo

sorpresa e tentazione,

selciato di terra finissima

passata quasi per setaccio

in tal grado di purezza,

e così particolare,

terra fina e rossiccia,

confusa nei riflessi del tramonto.

La imboccò

per dovere attratto

e dal colore,

mistico in gestir

di suo interesse.

A tratti,

priva in regola o criterio,

grossa ghiaia intervallava

morbida

la strada,

come ruscello esanime

in getto di zavorra

e lì caduta,

seccata,

ad avanzar di letto

il testimone.

Ai bordi,

lontano,

strani riflessi

e luce multitono,

spedita d’urto

in acqua di ristagno e maleodore;

pozze,

oziosa abulia

per comodo beccar

d’uccelli in risma.

Candidi

rassicuranti,

di piuma in piuma

soddisfatti

v’aleggiavano d’intorno,

balzando in voli piccoli

alle rive,

attratti di continuo

al cambiar del singolo riflesso;

e si toccavano,

cozzavano le ali

in tenero saluto,

o per avviso

e poi beccate,

leggiadri e portentosi

in grazia unica

e solenne.

 

Confuso in quelle piume

svolazzava giocoso,

la testa a seguir,

d’infante,

i movimenti,

il brulicar di vivo

dello stormo,

il goder per specchio d’acqua

di quei corpi bianchi e senza peso.

Su, in volo,

a starnazzar d’allegro

quella terra,

laggiù;

e poi virar

destra

sinistra

improvviso,

avvolti in aria

e d’aria avvolti,

in picchiata scesa

ma sicura

a puntar di un lume

l’orizzonte.

E su, di nuovo,

a vibrar di vento ed emozione,

risolcare allegri

leggerezza

e tanta pista.

Lo sguardo vigile

oscillava,

e il corpo tutto

al movimento,

cambian rotta

morbide

le piume;

aperte le braccia

a piega in gomito

per ali,

volteggiava su se stesso,

allungando dal collo

lo starnazzar a squarciagola

ed occhi chiusi,

leggiadro carpir

di mente in volo.

 

Si avvicinò,

così,

di corsa,

cavalcando senza grazia

ma deciso

ogni ostacolo o fossetto,

terra, mucchi,

passi errati;

e gridava,

oscura trama,

starnazzar vibrato

in moto

e per fatica.

Lo stormo

volò al cielo,

verticale

natura

di tramonto

in direzione.

Ombre.

 

Non starnazzava più,

braccia cadute nel silenzio

a coltivar degli esseri

il dirado,

leggiadri;

ed orme in solo,

piccole,

figuravano presenza

sulla riva molle dello stagno,

a misurar di piede

il disaccordo;

scosse la testa,

e rigido

il suo corpo,

tuffò malanima

nell’acqua.

Nuovo starnazzare

continuo,

ripetuto sbattito di braccia,

ali contro stagno;

supino,

la pancia immersa

a fondo

nella melma,

mentre la testa scivolava

fuori

d’ogni gemito sonante.

Rumore in gola

e fragor d’umana sorte

a quelle braccia,

in cornice d’aria

ad avventar

l’autore ed il suo afflato.

Poi stanco

si voltò di schiena,

a guardar quel cielo

ladro

di creature,

avido d’ingoio

e di carpire

il similar di lui

condanna

senza volo.

Schizzi di melma

ricoprivano il suo viso

e sudore,

in maschera marrone

tramutato,

ora immobile,

immerso,

le braccia ancora a mò di ali.

Fissò

il cielo,

lo sguardo stanco

esterefatto;

piccole nuvole

bonarie,

ultimo saluto

a limpidezza di tramonto,

disegni,

cumuli di polvere

allo sguardo,

e dietro trasportato,

lentamente,

sognando l’immateria

del ritorno.

Sospirò paziente,

rauco e serio

in posizione.

Un altro stormo solcò il cielo,

stormo d’ali

e bianchi sensi,

moti eletti

eppur virali,

perciò vitali,

normali.

A lungo

moral ignota

condivise

in stormo d’ulcere mentali;

poi decise,

sollevar di peso il corpo

e le sue ali,

dall’umido terren

di stagno piccolo.

 

Montagne e fossati,

or in contorno,

stanco,

laconico,

la strada lunga di cammino

lasciata a strana vista,

spettacolo,

ostacolo arduamente

conquistato

e membra stanche,

montagne,

montagne,

duro calcar

di vecchi passi

in contro senso.

Inciampava di continuo,

ad ogni mucchio,

pietra,

ogni volta componendo

per ricordo

l’abitudine al disprezzo.

Maggiore

fatica,

ed il passo carpiva

energico

il rimasto bramar

d’egoistico tiranno;

ma non poteva,

noto,

rinunciar di via

e ritorno.

Terra rossa e fina,

pura,

ancor lontana

e d’insolita pazienza

attesa;

pensieri, pensiero,

pensiero.

 

Finalmente terra,

l’ultimo fossetto,

il bordo della strada,

i riflessi deboli,

nascosti in rado vegetar

di vista appena.

Lo specchio d’acqua,

in lontananza.

 

Sbuffò,

sputando fuor saliva

e delusioni.

Poi chino,

ad estremo doler

di stanca falla,

per un sasso tondo,

lucido,

perfetto,

offerto sul vassoio polveruleo.

Lo prese fra le mani, con cura;

lo lucidò

in appuro di nettezza

al controluce,

e poi lanciò

di scarse forze

in direzione dello stagno.

 

Precario l’equilibrio

ad ogni mossa,

e nello slancio

rovine rese all’intemperie

di un dirocco già varcato:

a terra, di botto,

d’aiuto alcuno

le sue braccia;

sordo rumore,

tonfo,

beffardo,

e dolor distribuito

in pari fatta

a corpo e istinto antico.

E solo brama

salva

alla sconfitta,

spinto al rialzo

di vigor assurdo

e irraggiungibile,

sforzo

sprone ad ulteriore

ed imponente,

quasi in cerca di mostrar

del folle

il soffermarsi.

 

Sbuffò, ancora,

traverso penetrando

in sguardi,

lo strano vapor

in decollo di terreno,

sdraiato sul suo peso

a riempir di se

la pelle;

soffiava, soffiava,

leggero

per alzar di nuvole

il ricordo,

polvere rossastra,

stormo in cielo

ed anime carpite.

E con la mano

poi

improvviso

disperdeva,

godendo di un potere

prima non avuto.

Grande in senso,

immenso padrone

in quella terra

circondato;

rincuor destato,

si alzò in fatica

a camminar di nuovo

e ciondolante

la stradina.

 

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