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I
Sincero e tranquillo
il tramonto
dipingeva
distratto l’orizzonte,
macchiando qua e là
con pennellate calde di colore.
Camminava,
con andatura molto lenta,
ciondolando verso destra,
poi a sinistra,
rimbalzato d’ali invisibili
in muri di non posso,
e di non devo,
stregato a vagar di senza sosta
e senza meta,
violento nello sguardo
per le ferite acute ed indelebili,
sempre alla ricerca di un qualcosa
che non trovava mai;
quanti ne aveva scrutati,
sopportati,
di tramonti all’orizzonte,
tutti uguali e belli,
quante volte li aveva rincorsi
col suo passo debole e insicuro.
Ed un nuovo occidere
dei tanti,
altro bagliore
che improvviso scompariva,
lasciando quella terra
orfana
del luminoso suo splendore.
Ma il calore avvolgeva i lenti passi,
ed il paesaggio,
scaldato nell’animo,
e corrotto
di un sentir tranquillo
e spensierato.
Aveva imboccato una strada secondaria,
aperta improvvisa
alla sua vista
al di là di un anfratto naturale;
una grotta, forse,
una galleria,
ormai erosa
nella copertura superiore,
ridotta in sorta
di passo a monte,
seppur valle;
le pareti
modellate
da milioni di vermi scultori,
in un intrigo spasmodico
di piccoli cunicoli
e for d’ogni misura.
Le toccò
per assaporar sapore
che pareva sprigionare;
poi la stradina,
volta a sinistra,
direzione del fuoco
in eclissi di collina.
Piccola,
un viottolo
sorpresa e tentazione,
selciato di terra finissima
passata quasi per setaccio
in tal grado di purezza,
e così particolare,
terra fina e rossiccia,
confusa nei riflessi del tramonto.
La imboccò
per dovere attratto
e dal colore,
mistico in gestir
di suo interesse.
A tratti,
priva in regola o criterio,
grossa ghiaia intervallava
morbida
la strada,
come ruscello esanime
in getto di zavorra
e lì caduta,
seccata,
ad avanzar di letto
il testimone.
Ai bordi,
lontano,
strani riflessi
e luce multitono,
spedita d’urto
in acqua di ristagno e maleodore;
pozze,
oziosa abulia
per comodo beccar
d’uccelli in risma.
Candidi
rassicuranti,
di piuma in piuma
soddisfatti
v’aleggiavano d’intorno,
balzando in voli piccoli
alle rive,
attratti di continuo
al cambiar del singolo riflesso;
e si toccavano,
cozzavano le ali
in tenero saluto,
o per avviso
e poi beccate,
leggiadri e portentosi
in grazia unica
e solenne.
Confuso in quelle piume
svolazzava giocoso,
la testa a seguir,
d’infante,
i movimenti,
il brulicar di vivo
dello stormo,
il goder per specchio d’acqua
di quei corpi bianchi e senza peso.
Su, in volo,
a starnazzar d’allegro
quella terra,
laggiù;
e poi virar
destra
sinistra
improvviso,
avvolti in aria
e d’aria avvolti,
in picchiata scesa
ma sicura
a puntar di un lume
l’orizzonte.
E su, di nuovo,
a vibrar di vento ed emozione,
risolcare allegri
leggerezza
e tanta pista.
Lo sguardo vigile
oscillava,
e il corpo tutto
al movimento,
cambian rotta
morbide
le piume;
aperte le braccia
a piega in gomito
per ali,
volteggiava su se stesso,
allungando dal collo
lo starnazzar a squarciagola
ed occhi chiusi,
leggiadro carpir
di mente in volo.
Si avvicinò,
così,
di corsa,
cavalcando senza grazia
ma deciso
ogni ostacolo o fossetto,
terra, mucchi,
passi errati;
e gridava,
oscura trama,
starnazzar vibrato
in moto
e per fatica.
Lo stormo
volò al cielo,
verticale
natura
di tramonto
in direzione.
Ombre.
Non starnazzava più,
braccia cadute nel silenzio
a coltivar degli esseri
il dirado,
leggiadri;
ed orme in solo,
piccole,
figuravano presenza
sulla riva molle dello stagno,
a misurar di piede
il disaccordo;
scosse la testa,
e rigido
il suo corpo,
tuffò malanima
nell’acqua.
Nuovo starnazzare
continuo,
ripetuto sbattito di braccia,
ali contro stagno;
supino,
la pancia immersa
a fondo
nella melma,
mentre la testa scivolava
fuori
d’ogni gemito sonante.
Rumore in gola
e fragor d’umana sorte
a quelle braccia,
in cornice d’aria
ad avventar
l’autore ed il suo afflato.
Poi stanco
si voltò di schiena,
a guardar quel cielo
ladro
di creature,
avido d’ingoio
e di carpire
il similar di lui
condanna
senza volo.
Schizzi di melma
ricoprivano il suo viso
e sudore,
in maschera marrone
tramutato,
ora immobile,
immerso,
le braccia ancora a mò di ali.
Fissò
il cielo,
lo sguardo stanco
esterefatto;
piccole nuvole
bonarie,
ultimo saluto
a limpidezza di tramonto,
disegni,
cumuli di polvere
allo sguardo,
e dietro trasportato,
lentamente,
sognando l’immateria
del ritorno.
Sospirò paziente,
rauco e serio
in posizione.
Un altro stormo solcò il cielo,
stormo d’ali
e bianchi sensi,
moti eletti
eppur virali,
perciò vitali,
normali.
A lungo
moral ignota
condivise
in stormo d’ulcere mentali;
poi decise,
sollevar di peso il corpo
e le sue ali,
dall’umido terren
di stagno piccolo.
Montagne e fossati,
or in contorno,
stanco,
laconico,
la strada lunga di cammino
lasciata a strana vista,
spettacolo,
ostacolo arduamente
conquistato
e membra stanche,
montagne,
montagne,
duro calcar
di vecchi passi
in contro senso.
Inciampava di continuo,
ad ogni mucchio,
pietra,
ogni volta componendo
per ricordo
l’abitudine al disprezzo.
Maggiore
fatica,
ed il passo carpiva
energico
il rimasto bramar
d’egoistico tiranno;
ma non poteva,
noto,
rinunciar di via
e ritorno.
Terra rossa e fina,
pura,
ancor lontana
e d’insolita pazienza
attesa;
pensieri, pensiero,
pensiero.
Finalmente terra,
l’ultimo fossetto,
il bordo della strada,
i riflessi deboli,
nascosti in rado vegetar
di vista appena.
Lo specchio d’acqua,
in lontananza.
Sbuffò,
sputando fuor saliva
e delusioni.
Poi chino,
ad estremo doler
di stanca falla,
per un sasso tondo,
lucido,
perfetto,
offerto sul vassoio polveruleo.
Lo prese fra le mani, con cura;
lo lucidò
in appuro di nettezza
al controluce,
e poi lanciò
di scarse forze
in direzione dello stagno.
Precario l’equilibrio
ad ogni mossa,
e nello slancio
rovine rese all’intemperie
di un dirocco già varcato:
a terra, di botto,
d’aiuto alcuno
le sue braccia;
sordo rumore,
tonfo,
beffardo,
e dolor distribuito
in pari fatta
a corpo e istinto antico.
E solo brama
salva
alla sconfitta,
spinto al rialzo
di vigor assurdo
e irraggiungibile,
sforzo
sprone ad ulteriore
ed imponente,
quasi in cerca di mostrar
del folle
il soffermarsi.
Sbuffò, ancora,
traverso penetrando
in sguardi,
lo strano vapor
in decollo di terreno,
sdraiato sul suo peso
a riempir di se
la pelle;
soffiava, soffiava,
leggero
per alzar di nuvole
il ricordo,
polvere rossastra,
stormo in cielo
ed anime carpite.
E con la mano
poi
improvviso
disperdeva,
godendo di un potere
prima non avuto.
Grande in senso,
immenso padrone
in quella terra
circondato;
rincuor destato,
si alzò in fatica
a camminar di nuovo
e ciondolante
la stradina.
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