Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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III

 

 

La notte

in lento scorse

per cammino,

e un  pò dormendo

al duro masso,

o per raro

incontro d’albero

alla strada;

non facile

il convegno

e del poco in regola

sfuggito

ospitar soleva

il mucchio di fatica,

in pelle ed ossa

trascinato.

Grande l’ultimo,

di chioma folta e scura,

patito e vissuto,

ulivo,

tronco possente

e tormento,

di impietoso scavo

al tempo.

S’attorceva

al cielo verso

spira a spira,

in venatur d’antiche membra

e pur contorte,

leggiadro fluir

di linfa al sommo;

e pareva alzarsi

in lieve ardire

pur di gobba offeso

al fine ramo;

ma chiodato

l’unghie al sale

sprofondava,

in statico maner

di fiero ordito.

E lì appoggiò,

fatica in gemito

al notturno,

in vaga forma

nerboruta

di cuscino,

per testa indovinata

corteggiare

in precisa dimensione.

E così

mattin seguente

riscoperto,

di terra e formicare

sovrastato

oltre misura,

sol pungente a schiaffo

delittuoso

per lo sveglio,

e solletico,

fastidio,

miriadar d’animaletti

al corpo tutto

indolenzito.

Fermento

il brulicar di pelle,

piccola natura,

riunita

all’epidermide grinzosa

e ritmata ad arte,

fra giganti

duri

peli

ed ispidi,

in ingombro di cammino;

via vai

d’apparente

senza scopo,

guerreggiar d’assurdo

transitare

per non meta.

E colori

al brutto uniti,

rosso,

nero,

entrambi,

in tragico spartir

di stessa fine;

formiche,

avanti e non

continui,

schivar valanghe

e polveri volate,

d’ovunque empite

in tenero persisto.

E al dito apparso

invadente

ad invitare,

solo attimi

esitati alla scoperta,

e subito risalir della novella,

al controluce esposte

e ben distinte,

elettrico,

continuo

smarrir

di quale fine.

Limpido paesaggio

di consistente trasparenza,

a dimension detratto

e misurar immenso!

Antenne,

minuscole zampette

in rosa polvere di unghie;

avanti, indietro, avanti in nuovo,

senza sosta o ritmo in calo.

Ed uno,

improvviso rosso

fra quei tanti,

mirò di sguardo

attento

in direzione,

veloce e brusco

e repentino

all’impressione;

energico d’allora

lo scuoter dell’assedio,

scrollar di dosso

intento mostruoso,

ferocia in bestie

ed aspetto devastato.

Ed altre fra la polvere

a filar di pace e ritmo,

sotterrate dal fastidio

per pestoni.

La terra inghiottiva

ingorda

a vomitar poi

del vitale

spasimo incessante.

Distruggere!

Distruggere!

Ad un ad una con le dita,

dimirata cura

a vittima puntare,

un secco colpo

inflisse

distruttivo.

Uccise.

E terreno rese

dolo

all’arme vittorioso

e sanguinante.

 

La morte

radunò poi

in breve spazio

ripulito;

ordinò

per grande

e poi colore,

di nero

nero

in rosso acceso;

e terra scelse

e fina,

a cosparger

moltitudine straziata,

e saper del vecchio scorso

ricoprire,

in vel d’opaca culla granulosa.

 

Ed or,

incolta piana

ed ingiallita

solo

a vista,

immerso,

deserto aspetto

eppur scontroso

in fieri avventurieri;

lontano, lontano,

spogli rami e secchi,

d’albero memoria

e non sostanza,

e niente altro.

Strano ulivo

strano folto

e accuro,

terra priva d’altro vegetale

attorno,

ad oasi senza verde

coltivare

nel mare giallo

dello sguardo.

Sprofondò

ovunque

per spaziare,

nella torpida afa

mattiniera,

monotono cromar

di pallido paesaggio;

e pur strada a giunto

parve irrimediata,

camuffata

in paglia corta

e consumata.

Tutto secco,

bruciato,

letale arsura

contro sole,

angusto clima torrido

a ferire.

Ma l’ulivo,

lo sguardo in folta chioma

verde scuro,

non soffriva,

ben curato,

d’acqua

in sogno vero

favorito,

fresca e limpida

all’imago.

 

Quale impressione,

schiocco di lingua

per gustare,

e lo strano effetto,

evanescenza,

rado al suolo

riscaldato;

e grilli

salterino gioir

di spinta facile

e fulminea,

scosto

in opprimenti veli

di cispioso risvegliare.

La casa,

sparsa senza linea

all’orizzonte;

e solo

riconobbe

di colline,

alti e docili pendii,

a stonar

di monotono riarsume;

chissà.

Due le colline,

fra loro incastonate,

e strada,

quale,

a sembrar

diriger verso

tali viscere

e l’incastro.

 

Rannicchiò

di braccia

a rotule carpire,

per esile sfera

in punto

divenire;

strinse la morsa,

stretta

e rotolare

cadere,

rotolare,

rotolare.

Fresco senso

ed invitante,

benessere

improvviso

nei pensieri!

Ed istantaneo,

istantaneo

tramutar

d’immagine già vista,

immenso quadrato,

giallo completar

di punto a parte.

 

Gelato il sangue

nell’arsura,

inghiottìo virale di pensiero,

frustrazione,

atterrir sofferto di visione;

le mani in tremito

sospese,

vibrar

lo sguardo apposto

d’agonico penare,

e lento,

girate verso i palmi,

mirava e rimirava,

gli occhi sbarrati,

sordo vagito

in bocca d’alcun suono;

la fronte,

carezze,

sguardo fisso

in tremito di mani

disturbato;

le tempie,

ancor più assente e derelitto,

atterrito.

Immobile.

Squadrò il vuoto,

e la bocca a pianger di tremore,

incanto

e catalessi

allucinanti.

 

Poi brusco

sembrò ricaricarsi

inspirando d’energia.

Gonfiò

fino a scoppiare

inspirando forte

ad impazzire

pazzo

pazzo

pazzo

 

ed un urlo a squarciagola

libero

cosparve

per il campo,

disperato,

urlo

in solo tono

e mille urli,

sfinito d’ogni senso

oltre misura.

E via

in fuga al divenire

marcio nel costume

e nelle fibre,

ma dimentico

d’impression avuta

e del dolore.

Pazzo.

 

Cadde,

sbiancato,

sudato,

tremor

ancor disteso,

ed unico

poteva

puntar dagli occhi

il cielo

rigido in attesa.

Veloce il respiro

affannato e con fatica,

soffocate tirate

a un sol polmone.

E non un dito

conosceva,

forza

a schiuder denti stretti

in occluder di respiro;

ansia,

pietosa,

ansimar confuso

nel giallore del terreno.

Luce ovunque,

il ciel cosparso,

e striature scintillanti

a fender d’ogni dove;

ed uccelli

occhi rubati

in leggerezze innaturali,

trascinati in voli

immobili e prefetti.

Dolce il manto

in posa contro al corpo,

peso assente e fresco,

arieggiar d’oscuro montanare;

immenso azzurro

e luminoso,

il cielo,

trasportato senza vista

ma vedente

d’invalido volare.

 

Poi improvviso

s’aggrappò agli steli

di pagliuzza

contra mano;

strusciava con rabbia,

quasi strozzava

di muovere assassino,

smosso d’insolito dolere.

Il fiato affannava,

ed il corpo,

fulminei scatti,

per vibrar

già conosciuto,

d’unico sapore.

Ad ogni pulso

s’inarcava

ed il muscolo rigido

doleva,

durissimo,

rilassando poi

di brusco pentimento;

le mani sempre ancor

legate a terra,

paglia riarsa ed infuocata,

occhi sempre fissi

ad inghiottir di vuoto

tanto enorme.

 

L’agonico durar

per lungo

fuse in sprazzo immobile

di tregua;

bava,

alle labbra,

viola e rigonfie,

a maschera d’insano.

 

Riprese al poi

con tatto naturale,

e sola fame a morder

di gengive;

alto il sole in verticale

calda e terrorizzante

ogni fatica,

il suono dell’azzurro

a rimbombare:

sdraiato,

intriso nel sudore,

prurito in solo

a tartassar della sua schiena.

 

 

 

Livorno, 16 Giugno 1992

 

 

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