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III
La notte
in lento scorse
per cammino,
e un pò dormendo
al duro masso,
o per raro
incontro d’albero
alla strada;
non facile
il convegno
e del poco in regola
sfuggito
ospitar soleva
il mucchio di fatica,
in pelle ed ossa
trascinato.
Grande l’ultimo,
di chioma folta e scura,
patito e vissuto,
ulivo,
tronco possente
e tormento,
di impietoso scavo
al tempo.
S’attorceva
al cielo verso
spira a spira,
in venatur d’antiche membra
e pur contorte,
leggiadro fluir
di linfa al sommo;
e pareva alzarsi
in lieve ardire
pur di gobba offeso
al fine ramo;
ma chiodato
l’unghie al sale
sprofondava,
in statico maner
di fiero ordito.
E lì appoggiò,
fatica in gemito
al notturno,
in vaga forma
nerboruta
di cuscino,
per testa indovinata
corteggiare
in precisa dimensione.
E così
mattin seguente
riscoperto,
di terra e formicare
sovrastato
oltre misura,
sol pungente a schiaffo
delittuoso
per lo sveglio,
e solletico,
fastidio,
miriadar d’animaletti
al corpo tutto
indolenzito.
Fermento
il brulicar di pelle,
piccola natura,
riunita
all’epidermide grinzosa
e ritmata ad arte,
fra giganti
duri
peli
ed ispidi,
in ingombro di cammino;
via vai
d’apparente
senza scopo,
guerreggiar d’assurdo
transitare
per non meta.
E colori
al brutto uniti,
rosso,
nero,
entrambi,
in tragico spartir
di stessa fine;
formiche,
avanti e non
continui,
schivar valanghe
e polveri volate,
d’ovunque empite
in tenero persisto.
E al dito apparso
invadente
ad invitare,
solo attimi
esitati alla scoperta,
e subito risalir della novella,
al controluce esposte
e ben distinte,
elettrico,
continuo
smarrir
di quale fine.
Limpido paesaggio
di consistente trasparenza,
a dimension detratto
e misurar immenso!
Antenne,
minuscole zampette
in rosa polvere di unghie;
avanti, indietro, avanti in nuovo,
senza sosta o ritmo in calo.
Ed uno,
improvviso rosso
fra quei tanti,
mirò di sguardo
attento
in direzione,
veloce e brusco
e repentino
all’impressione;
energico d’allora
lo scuoter dell’assedio,
scrollar di dosso
intento mostruoso,
ferocia in bestie
ed aspetto devastato.
Ed altre fra la polvere
a filar di pace e ritmo,
sotterrate dal fastidio
per pestoni.
La terra inghiottiva
ingorda
a vomitar poi
del vitale
spasimo incessante.
Distruggere!
Distruggere!
Ad un ad una con le dita,
dimirata cura
a vittima puntare,
un secco colpo
inflisse
distruttivo.
Uccise.
E terreno rese
dolo
all’arme vittorioso
e sanguinante.
La morte
radunò poi
in breve spazio
ripulito;
ordinò
per grande
e poi colore,
di nero
nero
in rosso acceso;
e terra scelse
e fina,
a cosparger
moltitudine straziata,
e saper del vecchio scorso
ricoprire,
in vel d’opaca culla granulosa.
Ed or,
incolta piana
ed ingiallita
solo
a vista,
immerso,
deserto aspetto
eppur scontroso
in fieri avventurieri;
lontano, lontano,
spogli rami e secchi,
d’albero memoria
e non sostanza,
e niente altro.
Strano ulivo
strano folto
e accuro,
terra priva d’altro vegetale
attorno,
ad oasi senza verde
coltivare
nel mare giallo
dello sguardo.
Sprofondò
ovunque
per spaziare,
nella torpida afa
mattiniera,
monotono cromar
di pallido paesaggio;
e pur strada a giunto
parve irrimediata,
camuffata
in paglia corta
e consumata.
Tutto secco,
bruciato,
letale arsura
contro sole,
angusto clima torrido
a ferire.
Ma l’ulivo,
lo sguardo in folta chioma
verde scuro,
non soffriva,
ben curato,
d’acqua
in sogno vero
favorito,
fresca e limpida
all’imago.
Quale impressione,
schiocco di lingua
per gustare,
e lo strano effetto,
evanescenza,
rado al suolo
riscaldato;
e grilli
salterino gioir
di spinta facile
e fulminea,
scosto
in opprimenti veli
di cispioso risvegliare.
La casa,
sparsa senza linea
all’orizzonte;
e solo
riconobbe
di colline,
alti e docili pendii,
a stonar
di monotono riarsume;
chissà.
Due le colline,
fra loro incastonate,
e strada,
quale,
a sembrar
diriger verso
tali viscere
e l’incastro.
Rannicchiò
di braccia
a rotule carpire,
per esile sfera
in punto
divenire;
strinse la morsa,
stretta
e rotolare
cadere,
rotolare,
rotolare.
Fresco senso
ed invitante,
benessere
improvviso
nei pensieri!
Ed istantaneo,
istantaneo
tramutar
d’immagine già vista,
immenso quadrato,
giallo completar
di punto a parte.
Gelato il sangue
nell’arsura,
inghiottìo virale di pensiero,
frustrazione,
atterrir sofferto di visione;
le mani in tremito
sospese,
vibrar
lo sguardo apposto
d’agonico penare,
e lento,
girate verso i palmi,
mirava e rimirava,
gli occhi sbarrati,
sordo vagito
in bocca d’alcun suono;
la fronte,
carezze,
sguardo fisso
in tremito di mani
disturbato;
le tempie,
ancor più assente e derelitto,
atterrito.
Immobile.
Squadrò il vuoto,
e la bocca a pianger di tremore,
incanto
e catalessi
allucinanti.
Poi brusco
sembrò ricaricarsi
inspirando d’energia.
Gonfiò
fino a scoppiare
inspirando forte
ad impazzire
pazzo
pazzo
pazzo
ed un urlo a squarciagola
libero
cosparve
per il campo,
disperato,
urlo
in solo tono
e mille urli,
sfinito d’ogni senso
oltre misura.
E via
in fuga al divenire
marcio nel costume
e nelle fibre,
ma dimentico
d’impression avuta
e del dolore.
Pazzo.
Cadde,
sbiancato,
sudato,
tremor
ancor disteso,
ed unico
poteva
puntar dagli occhi
il cielo
rigido in attesa.
Veloce il respiro
affannato e con fatica,
soffocate tirate
a un sol polmone.
E non un dito
conosceva,
forza
a schiuder denti stretti
in occluder di respiro;
ansia,
pietosa,
ansimar confuso
nel giallore del terreno.
Luce ovunque,
il ciel cosparso,
e striature scintillanti
a fender d’ogni dove;
ed uccelli
occhi rubati
in leggerezze innaturali,
trascinati in voli
immobili e prefetti.
Dolce il manto
in posa contro al corpo,
peso assente e fresco,
arieggiar d’oscuro montanare;
immenso azzurro
e luminoso,
il cielo,
trasportato senza vista
ma vedente
d’invalido volare.
Poi improvviso
s’aggrappò agli steli
di pagliuzza
contra mano;
strusciava con rabbia,
quasi strozzava
di muovere assassino,
smosso d’insolito dolere.
Il fiato affannava,
ed il corpo,
fulminei scatti,
per vibrar
già conosciuto,
d’unico sapore.
Ad ogni pulso
s’inarcava
ed il muscolo rigido
doleva,
durissimo,
rilassando poi
di brusco pentimento;
le mani sempre ancor
legate a terra,
paglia riarsa ed infuocata,
occhi sempre fissi
ad inghiottir di vuoto
tanto enorme.
L’agonico durar
per lungo
fuse in sprazzo immobile
di tregua;
bava,
alle labbra,
viola e rigonfie,
a maschera d’insano.
Riprese al poi
con tatto naturale,
e sola fame a morder
di gengive;
alto il sole in verticale
calda e terrorizzante
ogni fatica,
il suono dell’azzurro
a rimbombare:
sdraiato,
intriso nel sudore,
prurito in solo
a tartassar della sua schiena.
Livorno, 16 Giugno 1992
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