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II
Ormai era buio
e luna
padrone
domava il nero
in gusto di possesso;
nè luce alcuna
in lontananza
a lenir del proprio
tenue compassione,
dentro,
timido,
morir di cose
vivaci e colorate,
ed or turbate e avvolte,
oscura cappa
impia
ed attentosa;
grande evento,
smisurata grandezza
inevitabile e potente,
impotenza in fronte
a spettator
coinvolto,
d’animo in pace
e labbra schiuse,
in umor di manto
attese,
a carpir segreto
e sera
sopraggiunta.
Diresse spensierato
in direzion di un casolare
tracciato in fondo all’orizzonte.
Una forma scura,
più scuro al resto,
gigante in alto
fra radure e pascoli uniformi.
Una meta senza scopo
e piena in fine,
dipinta all’orizzonte
in ceruleo fondeggiar
di salto scuro in lineamento;
ed anche la strada
sembrava diriger verso,
sebben divincolasse
per curve e distorsioni
in resa ardua e misteriosa.
Finalmente giunse
dopo lungo cammino,
pericolante
sugli stracci che avvolgevano
i suoi piedi,
ciabatte
ormai a negar
possibile
sollievo.
Una casa abbandonata,
antica e fatiscente,
per mattoni
erosi
e polverosi
eretta,
e per cui mazzetti
in fili d’erba
a divorar dell’ultimo riaccuro.
E dove l’angolo
formava
il suo diletto,
folti i ciuffi
sgorgavano scontrosi,
quasi mura spuntate dal terreno
in fretta germogliate,
a disturbar d’arruffo
il manto erboso.
Soffermò
davanti all’unico portone ,
al perimetrar intero
raggirato.
Era di legno
Consumato,
marcato in tempo
e per termiti,
e forma d’arco,
in antico splendor
di catalogni vani.
E tal splendore
conservava,
portone malinconico e ferito,
fascinoso,
d’indelebile firmato
a nobil decaduto,
ma orgoglio d’anni e d’esperienza
andati.
Toccò
gentile
e d’armonico pudore,
forma di maniglie
in ruggine rimasta,
avanzar di bieco grumolo
in divoro.
Brivido,
a percorrere i suoi fianchi
e spina dorsa,
ed occhi chiusi
incanto e istinto
uniti,
in dolce tatto
freddo
e spigoloso.
Fra le dita,
guardò,
granelli d’abituale inuso
disturbato,
ammirati
infusi
nelle trecce della pelle,
scosti
in sotto d’unghia
e fra le piaghe.
Rosso,
granelli,
ferite in colore
alla sua carne,
e rosse stesse piaghe
a martorire;
o mille tramonti
così belli e uguali,
di terra grande
amata
e sconosciuta.
Allor di luna alzò lo sguardo,
disordinate tegole
al contrasto,
recise in denti acuti
di quel tetto;
e sorriso,
luna,
contraccambiò d’ardire
naturale.
Nuovo,
dita
in occhi pieni,
avvicinar di labbra,
odorar profondo,
cullando in chiuse palpebre
il respiro;
ed immerse
a fondo
nella bocca,
leccando di passione
e grande onore.
Metallico lo scricchio
Sotto i denti,
rapito
in delirio
di soave senso e godimento,
quasi adesso,
starnazzando,
più alto in tutto
d’alati
e nivei esseri
di stagno.
Masticava allegro,
con fervore,
mani ancor sulle maniglie
a grattar d’unghie già piene,
l’essenza di quel tempo
che non conosceva.
La porta si aprì,
improvvisa
di leggera
ammonizione.
Schiuse,
ostrica,
lentamente sospirando
di cigolo ed attrito,
a fessur vagina
tra le ante
dimostrare,
scoperta,
e disegni in oltre
suolo
realizzati,
irriconoscibile terren di passo usato,
per lama di fendente luna
in raggio dritto
e ben scagliato.
Accennò di passo timido
l’interno,
in affilato raggio
ad impaurir
atteso,
lui.
Altro passo,
indeciso,
in tocco
solo
immenso disertare;
e vampata di laniccio avvolto,
polvere
corposa,
alzata per terreno
a solitudine accentare.
E lama
ancor più truce
guardata con disprezzo
e pur timore,
continua,
d’attento frugata
a percepir di vero
scosto.
Si piegò sulle ginocchia,
cauto in estremo di fatica,
per saltar di pari piede
a scavalcare.
Ma rovinò di nuovo al suolo,
goffo
in ossa fragili e minaccia,
rumor in stipite ad usura;
porta,
legno,
antico splendor di catalogno vano.
Stremato e indolenzito
Abbandonò se stesso
in giaccio di mattone,
duro tappeto
e polveroso,
consumato.
Il fiato alterava
insufficiente,
martello di rimprovero
in battito di cuore,
forzato ed ansimante;
immobile
assoluto
nelle membra,
sterilità d’ogni pensar
coinvolta,
lento riprendeva,
respir più calmo,
pace,
e non paura,
gesto orribile e feroce,
sevizia,
agonia spasmodica e tormento.
E la lama,
volto in versa direzione,
a sfidar di sua minaccia,
striscio in terra
e solo male.
Niente;
ante socchiuse
e riflesso in semplice lunare
distillato.
Si girò,
appoggiando le ginocchia,
braccia tese fra viso e pavimento;
soffiava,
giocando con la polvere
invadente,
e ad ogni respiro
poi inspirava,
ingordo,
l’ossigeno
in soccorso
per rialzo.
Ed a fondo
camminò
l’interno della stanza
in quattro zampe,
ardito animale
spinto in dosi
di curiosa selvaggina;
polvere,
ovunque,
e laniccio,
sudicio,
desolazione.
Di lato
una seggiola
appoggiava il muro
solo d’arti
invinti
ed anteriori,
superstite
deviata in fuori norma,
di schienal distrutto
consacrata;
ed al sotto per fessura,
guarnizion di sbarre a croce
in diviso oscuro sfondo
d’ugual monotone
sezioni;
minuscola fessura,
d’ammasso muschio
ed odoroso,
acre;
seggiola,
e riposo instabile
di verde fiasco polveroso,
sdraiato in fianco
a sollevar di terra il collo.
Si avvicinò,
ancor quadrupede
di mossa,
per tocco in brama
lieve,
leggero;
e lento
il verde rigirò di bordo,
fra danze in vol di polvere
e silenzio.
Sorrise,
maestà gioconda
e grazia sopraffina,
fievole frusciar
di cose in ritmo.
Ed al seguito
interrotto,
in mille pezzi
sparse
per la stanza,
estirpato dall’abbraccio
dell’inedia,
le dita scorticate,
dolenti,
di mattone aggrappo
e colpo odioso,
violento,
irresistito,
dimor di nuova
rabbia
ed accogliente;
come lucertola impaurita
al più tetto nè dimora,
in balia ed alla mercè
di stasi immotile
per dove.
Ritrasse repentino,
sorpreso e delirante
e d’intimo colpevole;
inghiottì
forzato;
poi in piedi
a scoprir d’alieno
l’orizzonte.
Piccola stanza,
di tutto resa
in ogni stato,
rotto,
sudicio
o ragnoso;
d’ammanco
il solo
tavolar di media stanza,
disio di vista in voglio,
e suonar d’ormai
disgrazia.
All’aperto
allor
in nuovo,
solcando
tra le ante
d’incedere scostante
e irrispettoso.
Luna,
sputar d’addosso e terra;
e nuovo cammino atteso,
la stradina,
opposte ire
in di venuto.
Ma fermo a pochi passi
in colpo,
immobile d’arco completato,
ad aspettar,
o così in sembro,
il reagir di qualche
oppur qualcuno,
strano agir
di quasi andato.
Alzò leggero il mento
all’alto verso,
in convesse ciglia
per frugar di sbieco
terra
e la sua mente;
poi voltò
di nuovo
in vecchia casa,
ad aprir di cenci il pube,
e volgar
di mano
dentro,
panni,
gambe,
pene minuscolo
e accaldati;
urinar dovere,
massaggiò di volte
lungo l’asta;
e poi
al dietro dondolando,
lo scalino immerso in quelle gocce,
le mani,
i pantaloni.
E d’eretto in nuovo
al fine,
ripose il pene
senza cura
d’alcun senso.
Asciugò le mani in fretta
Addosso,
ultime gocce
a lingua,
ed in breve
ancora
giunse la punto d’imbarazzo;
la mano destra al petto,
a contar di battito il suo cuore
ed al terzo
mosse il primo passo
verso il nuovo suo orizzonte.
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