Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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Cap. I Cap. II Cap. III
 
   

II

 

 

Ormai era buio

e luna

padrone

domava il nero

in gusto di possesso;

nè luce alcuna

in lontananza

a lenir del proprio

tenue compassione,

dentro,

timido,

morir di cose

vivaci e colorate,

ed or turbate e avvolte,

oscura cappa

impia

ed attentosa;

grande evento,

smisurata grandezza

inevitabile e potente,

impotenza in fronte

a spettator

coinvolto,

d’animo in pace

e labbra schiuse,

in umor di manto

attese,

a carpir segreto

e sera

sopraggiunta.

 

Diresse spensierato

in direzion di un casolare

tracciato in fondo all’orizzonte.

Una forma scura,

più scuro al resto,

gigante in alto

fra radure e pascoli uniformi.

Una meta senza scopo

e piena in fine,

dipinta all’orizzonte

in ceruleo fondeggiar

di salto scuro in lineamento;

ed anche la strada

sembrava diriger verso,

sebben divincolasse

per curve e distorsioni

in resa ardua e misteriosa.

 

Finalmente giunse

dopo lungo cammino,

pericolante

sugli stracci che avvolgevano

i suoi piedi,

ciabatte

ormai a negar

possibile

sollievo.

Una casa abbandonata,

antica e fatiscente,

per mattoni

erosi

e polverosi

eretta,

e per cui mazzetti

in fili d’erba

a divorar dell’ultimo riaccuro.

E dove l’angolo

formava

il suo diletto,

folti i ciuffi

sgorgavano scontrosi,

quasi mura spuntate dal terreno

in fretta germogliate,

a disturbar d’arruffo

il manto erboso.

 

Soffermò

davanti all’unico portone       ,

al perimetrar intero

raggirato.

Era di legno

Consumato,

marcato in tempo

e per termiti,

e forma d’arco,

in antico splendor

di catalogni vani.

E tal splendore

conservava,

portone malinconico e ferito,

fascinoso,

d’indelebile firmato

a nobil decaduto,

ma orgoglio d’anni e d’esperienza

andati.

Toccò

gentile

e d’armonico pudore,

forma di maniglie

in ruggine rimasta,

avanzar di bieco grumolo

in divoro.

Brivido,

a percorrere i suoi fianchi

e spina dorsa,

ed occhi chiusi

incanto e istinto

uniti,

in dolce tatto

freddo

e spigoloso.

Fra le dita,

guardò,

granelli d’abituale inuso

disturbato,

ammirati

infusi

nelle trecce della pelle,

scosti

in sotto d’unghia

e fra le piaghe.

Rosso,

granelli,

ferite in colore

alla sua carne,

e rosse stesse piaghe

a martorire;

o mille tramonti

così belli e uguali,

di terra grande

amata

e sconosciuta.

Allor di luna alzò lo sguardo,

disordinate tegole

al contrasto,

recise in denti acuti

di quel tetto;

e sorriso,

luna,

contraccambiò d’ardire

naturale.

Nuovo,

dita

in occhi pieni,

avvicinar di labbra,

odorar profondo,

cullando in chiuse palpebre

il respiro;

ed immerse

a fondo

nella bocca,

leccando di passione

e grande onore.

Metallico lo scricchio

Sotto i denti,

rapito

in delirio

di soave senso e godimento,

quasi adesso,

starnazzando,

più alto in tutto

d’alati

e nivei esseri

di stagno.

Masticava allegro,

con fervore,

mani ancor sulle maniglie

a grattar  d’unghie già piene,

l’essenza di quel tempo

che non conosceva.

La porta si aprì,

improvvisa

di leggera

ammonizione.

Schiuse,

ostrica,

lentamente sospirando

di cigolo ed attrito,

a fessur vagina

tra le ante

dimostrare,

scoperta,

e disegni in oltre

suolo

realizzati,

irriconoscibile terren di passo usato,

per lama di fendente luna

in raggio dritto

e ben scagliato.

Accennò di passo timido

l’interno,

in affilato raggio

ad impaurir

atteso,

lui.

Altro passo,

indeciso,

in tocco

solo

immenso disertare;

e vampata di laniccio avvolto,

polvere

corposa,

alzata per terreno

a solitudine accentare.

E lama

ancor più truce

guardata con disprezzo

e pur timore,

continua,

d’attento frugata

a percepir di vero

scosto.

 

Si piegò sulle ginocchia,

cauto in estremo di fatica,

per saltar di pari piede

a scavalcare.

Ma rovinò di nuovo al suolo,

goffo

in ossa fragili e minaccia,

rumor in stipite ad usura;

porta,

legno,

antico splendor di catalogno vano.

Stremato e indolenzito

Abbandonò se stesso

in giaccio di mattone,

duro tappeto

e polveroso,

consumato.

Il fiato alterava

insufficiente,

martello di rimprovero

in battito di cuore,

forzato ed ansimante;

immobile

assoluto

nelle membra,

sterilità d’ogni pensar

coinvolta,

lento riprendeva,

respir più calmo,

pace,

e non paura,

gesto orribile e feroce,

sevizia,

agonia spasmodica e tormento.

E la lama,

volto in versa direzione,

a sfidar di sua minaccia,

striscio in terra

e solo male.

Niente;

ante socchiuse

e riflesso in semplice lunare

distillato.

 

Si girò,

appoggiando le ginocchia,

braccia tese fra viso e pavimento;

soffiava,

giocando con la polvere

invadente,

e ad ogni respiro

poi inspirava,

ingordo,

l’ossigeno

in soccorso

per rialzo.

Ed a fondo

camminò

l’interno della stanza

in quattro zampe,

ardito animale

spinto in dosi

di curiosa selvaggina;

polvere,

ovunque,

e laniccio,

sudicio,

desolazione.

Di lato

una seggiola

appoggiava il muro

solo d’arti

invinti

ed anteriori,

superstite

deviata in fuori norma,

di schienal distrutto

consacrata;

ed al sotto per fessura,

guarnizion di sbarre a croce

in diviso oscuro sfondo

d’ugual monotone

sezioni;

minuscola fessura,

d’ammasso muschio

ed odoroso,

acre;

seggiola,

e riposo instabile

di verde fiasco polveroso,

sdraiato in fianco

a sollevar di terra il collo.

Si avvicinò,

ancor quadrupede

di mossa,

per tocco in brama

lieve,

leggero;

e lento

il verde rigirò di bordo,

fra danze in vol di polvere

e silenzio.

Sorrise,

maestà gioconda

e grazia sopraffina,

fievole frusciar

di cose in ritmo.

 

Ed al seguito

interrotto,

in mille pezzi

sparse

per la stanza,

estirpato dall’abbraccio

dell’inedia,

le dita scorticate,

dolenti,

di mattone aggrappo

e colpo odioso,

violento,

irresistito,

dimor di nuova

rabbia

ed accogliente;

come lucertola impaurita

al più tetto nè dimora,

in balia ed alla mercè

di stasi immotile

per dove.

Ritrasse repentino,

sorpreso e delirante

e d’intimo colpevole;

inghiottì

forzato;

poi in piedi

a scoprir d’alieno

l’orizzonte.

Piccola stanza,

di tutto resa

in ogni stato,

rotto,

sudicio

o ragnoso;

d’ammanco

il solo

tavolar di media stanza,

disio di vista in voglio,

e suonar  d’ormai

disgrazia.

 

All’aperto

allor

in nuovo,

solcando

tra le ante

d’incedere scostante

e irrispettoso.

Luna,

sputar d’addosso e terra;

e nuovo cammino atteso,

la stradina,

opposte ire

in di venuto.

Ma fermo a pochi passi

in colpo,

immobile d’arco completato,

ad aspettar,

o così in sembro,

il reagir di qualche

oppur qualcuno,

strano agir

di quasi andato.

Alzò leggero il mento

all’alto verso,

in convesse ciglia

per frugar di sbieco

terra

e la sua mente;

poi voltò

di nuovo

in vecchia casa,

ad aprir di cenci il pube,

e volgar

di mano

dentro,

panni,

gambe,

pene minuscolo

e accaldati;

urinar dovere,

massaggiò di volte

lungo l’asta;

e poi

al dietro dondolando,

lo scalino immerso in quelle gocce,

le mani,

i pantaloni.

E d’eretto in nuovo

al fine,

ripose il pene

senza cura

d’alcun senso.

Asciugò le mani in fretta

Addosso,

ultime gocce

a lingua,

ed in breve

ancora

giunse la punto d’imbarazzo;

la mano destra al petto,

a contar di battito il suo cuore

ed al terzo

mosse il primo passo

verso il nuovo suo orizzonte.

 

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