Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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Cap. I Cap. II Cap. III
 
   

I

 

 

Viveva in una stanza ammobiliata,

al centro di quel sito,

in un luogo trascurato

in traffico di cose;

strada grigia,

mai per poco

poco sole

nascosto e oppresso

fra palazzoni alti

e uguali,

grigi,

con finestre ampie

solo inutili.

La sua stanza ne aveva due,

dirette sulla strada

e sulle finestre di fronte.

Vecchi palazzi solamente,

come uno accanto

già al dirocco,

da sempre imprigionato

in una gabbia di ferro arrugginito,

deciso di ristrutturar

ponteggio

mai di termine o iniziato;

l’ingresso, in otturo

di popolazion ferraglia

ed arricchito,

telar di motorini e biciclette

in ragno altrunque condannato;

e moto accrescer di scolore,

vecchia moto,

forte strutto

d’ora inutile

e sincera.

L’aveva vista appassire,

ogni volta,

nell’addensar

di corpo

il buio d’un androne,

indigeno l’anfratto,

l’atmosfera,

e brusco il richiamar

di nera macchia;

ferraglia,

ponteggiar d’inerme silvia,

eppur ombre in ombra

a fondo nella macchia,

riflessi ramati e lontani

a stonar l’oscuro effetto

d’un anfratto d’artificio;

fermo

in mezzo alla strada,

mani in tocco

lo spigolar di macchina

in posteggio;

 

Ohi senso oscuro

di riflesso,

vergogna in transito per atrio;

vera la porta

in lento avvicinar

curioso,

collo intriso di raccolta

fantasia;

e sol cassetta a posta,

una,

qual muro di riflessi,

in atteggiarsi trascurato

e di lato appesa

in umidi mattoni.

Non capì,

costanza di perduro;

fuori il senno

a squadrar palazzo

in cima e fondo;

il tetto;

e giù

all’ingresso,

e poi su,

fin’alla trave in sottotetto.

Panni,

appesi,

al filo abbarbicati

da ventata barbara o maldestra;

e rumori;

in origlio d’aria

percepiti,

al dentro in nuovo:

debole voce

per distanza,

e d’uom risata

e strano ardire.

 

Non capì,

di nuovo,

al rincasar di sempre

conquistato.

 

Tonda chiave del portone,

al tatto scelta delle dita,

o di posto in portachiavi,

prima od ultima

in settore.

E luce,

sulla destra,

fioca e polverosa,

anonimo ingresso

regalato squallido

ed intero.

Poi le scale,

due alla volta,

la vecchia

barricata

dietro for d’ogni misura

e d’ottone circondati,

mal distribuiti,

paura enorme in confusione;

e l’abbaio d’una Lilly

al risuonar dei passi,

curante in vero

solo il silenzio

d’abitudine e diletto;

 

La porta bianca,

ultimo piano;

la chiave inserita

con cautela,

brusco ogni rumore;

di volo

entrava nella stanza,

abbattuto in sol

di cigolar

maligno.

 

Al buio,

posava le sue chiavi

tra i fiammiferi

ed il libro,

ed accendeva la lampada sospesa,

tenue ed accogliente,

da sentor di noia

ed incubo

lontana.

Morbida lucìna,

mille braccia

a spogliar dell’ombre

la mobilia polverosa, i libri,

l’altra nera lampada scrivana.

Polvere saggia,

riconoscer di tortura

ed insistente,

tormento,

l’assenza provata

in pulizia di stanza tutta,

mal investita di riflesso

a incuspidir lo spigolo

e tensione.

E allor non più

nettare in fondo,

lume di bisogno sconosciuto,

ma lascivo poltrir

sotto la coltre silenziosa.

E così la mensola

accanto al letto,

i cofanetti in legno

susu,

precise geometrie

disposte d’invarianza;

radica artigiana

per fatica di paese

incisa,

e a man dipinta,

regalo d’amicizia

madre,

inimico sentire,

in doppio conquistata,

per lei,

come unico rinvenir

di fievole sorriso.

 

Ed uom baffuto,

magro,

immagine non vera,

rinchiuso

in di radica

pensiero;

occhio inerme

in nero di velluto

al dietro

relegato,

o in cofano raccolto,

come per strada

immagine

successe,

giorno lontano

ed incoscienza;

cofanetto polveroso

sulla destra.

Mai apriva,

non puliva,

non guardava,

persistente presenza

ad avvolger misterioso

in circostanza,

legame ardito

in mai trascuro;

o tatto,

mai,

pur in sempre sopraffatto

d’emozione e di disprezzo,

(per aleatorio) allo scordar,

timore acuto,

di recondito pensare.

 

Dimora l’altro,

cofanetto di sinistra,

per un petalo di rosa,

sol di un verde prato

dietro casa;

fragili ed antiche fibre

ogni volta riaffrescate

di cura e soffio lieve,

poi richiuse

in debito riposo,

prezioso

contenuto,

e nel silenzio.

 

Sedeva sul dondolo,

le mani in peso di ragione,

in cigolante senso d’abbandono.

Dal muro

i colpi di moti d’altra stanza,

ragazzi,

stranieri.

Ascoltava

innocua

la compagine sonora

di spesso muro

ed umido

frapposta;

la sentiva coricare,

spegnere la luce,

dormire, sognare,

grattarsi;

ed a luci in corridoio

or non più deste,

lento

ed or permesso,

frugava la dispensa,

al buio,

pan rubando

buono dei ragazzi,

due morsi in volta

e mai di più.

 

Passava la giornata alla finestra,

ad assorbir mondi in fermento

e rumorosi,

fumosi,

irritanti,

grigio plumbeo di colore

ed angosciosi,

in vetro sporco

rivestito.

Poggiava

alla balaustra polverosa,

soffiando l’invadente,

e gestiva seriamente

le sfumature di quel grigio

sempre uguale.

Poi i giorni di pioggia,

in fretta al passo

e solamente,

ovunque picchiettar di goccia

in suono.

Si svegliava

nel sonno,

ad ascoltar di musica

venuta,

in simbiosi tacita

raccolto

fra laniccio

polverume.

E da gocce in scroscio

udito,

s’alzava ad ammirar di gronda

il fiume vigoroso;

sorrideva, felice,

illuminato da baglior acquosi

di lampione,

diviso d’altro fronte

in fetta calda e diversa,

immersa in toni fievoli

e sottili;

antico patio

in simile,

e fontana,

patrizia,

cascata ampia ed armoniosa,

suoni grossi

e maestosa,

di giallo lume

pinta

in sabbia di lampione.

Poi

s’addormentava con grazia

ed ancor sorriso

alle sue labbra.

 

Notti speciali,

in luce e temporale

rivestite,

lavate strade

e sensazioni

di naturale ed efficace

onnipotenza.

Ma notti normali,

di stessa fam galeotta

e maniglia cigolante.

 

Sognava sempre

Una bolla di sapone,

in grande effetto vitreo

realizzata,

e lì rinchiuso.

Si cercava,

guardava,

e più guardava

più la bolla impiccioliva,

a catena, veloce,

d’impetuoso vortice

innescata

al primo sguardo;

schiacciato in niente

il contenuto.

E poi un campo,

ingiallito dal sole,

con un punto scuro da una parte,

perduto

nell’immenso complemento;

e più s’avvicinava,

veder

rimpiccioliva

il punto

incomprensibile e minuto.

 

Poi un uomo,

appoggiato

west

in spigolo di villa,

piazza in sol cocente

di paese

e polverosa,

ampia;

un uomo dai capelli bianchi,

i baffi bianchi,

le braccia in croce

sopra il petto.

Lo conosceva,

quel signor di contro porta

sul pianerottolo infantile;

lo conosceva bene,

ma non rispondeva mai;

gli chiedeva d’altro viso,

d’entrambi conosciuto

e lui convinto;

ma il signor canuto in pelo

non spondeva

a far d’ignoto

comportare,

mai visto o niente conosciuto,

con calma in sempre

e giudico tranquillo.

Allor correva a casa

in sogno sua

e per vero,

a sperar d’amico in cerca

per sua volta;

ma altra gente,

altri inquilini

per quali ovvio

di natura

lì trovarsi.

E l’uomo sparito,

la casa sparita,

la piazza senza più paese.

E di nuovo

il quadrato ingiallito dal sole,

il punto ad imploder d’ogni sguardo,

inghiottìo di campo

in vertigine di gorgo.

 

Si svegliava,

arrabbiato ed innervosito,

con le mani in vel di soffio

irrigidite;

dolore,

tormento d’ogni notte

in sintonia di campo

ed uom canuto;

o bolla in vitro di sapone.

Le strusciava sul pigiama,

delicato,

poi di caldo pube

circondava,

in tenera accoglienza

preparato.

 

La mattina

era avvolta dal grigiore delle mura

spunto da fessura di persiane;

decideva d’alzarsi,

unisono

in frenata di rimorso,

incombente il passo

d’altri desti,

o notturno agonico incombente

e non smaltito.

Pesante,

rigirava in letto

a maledir vergogna ed indolenza,

la rinuncia odierna

dell’adesso

sempre in dopo relegato,

alzar di membra

attimo

invadente.

Fissava le crepe del soffitto,

disposte strane

a profilar di uomo

in nudo,

grasso,

addormentato.

Scopriva ogni mattina

il naso

sempre uguale e inverso,

più gonfio o  raggrinzito,

malformato in smorfia

d’ogni viso;

e poi il petto,

flaccido,

in imitar di crepa

alla perfetto,

ed il buzzo prorompente,

a nasconder magistrale

i genitali soffocati.

 

Che giorno fosse,

domandava

appen destato;

perchè,

motivar di permanenza sul soffitto.

E la figura

uomo,

rispondeva,

in tono  di qualcuno già passato,

avvezzo al dubbio

e di tal genere.

 

Ben ti voglio,

gli pensò d’un mattinar comune;

si portò al di sotto della crepa,

e spostò l’anca della finestra,

disposta

odiosa

a picchiar di luce

in viso di figura;

poi si guardò

nel quadretto

appeso

ad intento d’importanza

manifesta;

il riflesso era opaco,

otturato per polvere

e sbadigli;

ma riuscì a veder

profilo

somigliare quella crepa

sul soffitto.

 

Ben ti voglio

gli pensò;

tolse

scarna

ogni mobilia,

ripulì con cura il pavimento

e stese la coperta del suo letto

in sotto di figura,

angoli aggiustati

a non uscir di tratto

dal perimetro di lana.

Controllò e ricontrollò,

per certo ed assoluto guadagnare;

poi pose il quadro

al centro del tappeto,

con cura e gentilezza

maneggiato.

Così rimasto, poi,

di giorno ed anno in polvere

inghiottito,

subentro in morfologico di stanza;

e non capiva

l’aprir mancante

di finestra,

in caldo afoso

debito

gigante.

Provava e non,

bloccato ancor in mente

da vago triste senso

e tremor di mano intenso,

pur propensa mano

alla maniglia,

nel pensiero.

Allor deluso

coricava in nuovo

ad osservar la crepa nel soffitto,

scoprir

particolare in lineamento.

Occhi socchiusi

a volte

od irridenti,

altre

in maggior verso,

aperti immobili

in assente atteggiamento,

di conquistato apatico

sembrare.

Guardava,

riguardava,

con gli stessi occhi asettici e confusi,

e piano la figura dissolveva

lasciando il posto,

esanime,

a spaccato di soffitto

malridotto.

 

Quei giorni

passava in dondolo

e seduto,

chiuso nel buio della stanza

a fissar del muro

lì davanti.

Dondolava noncurante

stropicciando le mani fra di loro,

per sudore appiccicoso

dilaniare,

a posar molesto

in nuovo

il peso e la ragione.

Fuori,

i rumori frenetici

strombazzavano continui,

e martellante

insieme

invadevano

il pensiero.

La fila d’auto,

disordinata in chiasso,

e la vedeva,

inserita in usuali geometrie

nel muro bianco e spoglio

sua attenzione;

le urla di ragazzo,

lo sbatter di coperchio

d’immondezza,

cornice

di realismo

spregiudicato ed insolente.

A volte,

il lamento di sirena

d’ambulanza;

s’attorcigliava

al frastuono della fila,

e le mani si serravano,

spaventate e nervose,

in apatia completa di persona.

Non sopportava

feroce

il suono e malinconico,

il senso di perduto

in accompagno,

al nuovo rimbalzar

sulle persiane.

Sapeva un male,

in fuga e lì costretto,

rincorso,

uman senz’uomo,

da corpo in anima

detratto.

Sapeva altri condotti,

in gara attivi

e finalmente,

distanti,

orgoglio di suono

in altri superiore.

Sapeva il resto,

parlare oppur sorridere

giocondo,

al declino dei diritti

dispensati.

E sapeva

una madre nel dolore,

piegata

dal peso delle lacrime,

trascinata al fondo

di un baratro infido e sottile;

madre non più madre,

donna in assenza di speranza;

una mano impazzita

che tocca sui fianchi,

le tempie,

ovunque,

per non trovar calore

o corpo vivo,

ma volontà

di un esistere finito

col diradarsi di uno squillo di sirena.

La stanza s’empiva d’ella e sofferenza,

permeavano

quelle stesse lacrime pesanti,

inondando l’angolo

d’angoscia furtiva

ed incompresa.

Il dondolo si era fermato,

le mani disgiunte,

lo sguardo

sempre

confuso nel muro.

 

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