I
Viveva in una stanza ammobiliata,
al centro di quel sito,
in un luogo trascurato
in traffico di cose;
strada grigia,
mai per poco
poco sole
nascosto e oppresso
fra palazzoni alti
e uguali,
grigi,
con finestre ampie
solo inutili.
La sua stanza ne aveva due,
dirette sulla strada
e sulle finestre di fronte.
Vecchi palazzi solamente,
come uno accanto
già al dirocco,
da sempre imprigionato
in una gabbia di ferro arrugginito,
deciso di ristrutturar
ponteggio
mai di termine o iniziato;
l’ingresso, in otturo
di popolazion ferraglia
ed arricchito,
telar di motorini e biciclette
in ragno altrunque condannato;
e moto accrescer di scolore,
vecchia moto,
forte strutto
d’ora inutile
e sincera.
L’aveva vista appassire,
ogni volta,
nell’addensar
di corpo
il buio d’un androne,
indigeno l’anfratto,
l’atmosfera,
e brusco il richiamar
di nera macchia;
ferraglia,
ponteggiar d’inerme silvia,
eppur ombre in ombra
a fondo nella macchia,
riflessi ramati e lontani
a stonar l’oscuro effetto
d’un anfratto d’artificio;
fermo
in mezzo alla strada,
mani in tocco
lo spigolar di macchina
in posteggio;
Ohi senso oscuro
di riflesso,
vergogna in transito per atrio;
vera la porta
in lento avvicinar
curioso,
collo intriso di raccolta
fantasia;
e sol cassetta a posta,
una,
qual muro di riflessi,
in atteggiarsi trascurato
e di lato appesa
in umidi mattoni.
Non capì,
costanza di perduro;
fuori il senno
a squadrar palazzo
in cima e fondo;
il tetto;
e giù
all’ingresso,
e poi su,
fin’alla trave in sottotetto.
Panni,
appesi,
al filo abbarbicati
da ventata barbara o maldestra;
e rumori;
in origlio d’aria
percepiti,
al dentro in nuovo:
debole voce
per distanza,
e d’uom risata
e strano ardire.
Non capì,
di nuovo,
al rincasar di sempre
conquistato.
Tonda chiave del portone,
al tatto scelta delle dita,
o di posto in portachiavi,
prima od ultima
in settore.
E luce,
sulla destra,
fioca e polverosa,
anonimo ingresso
regalato squallido
ed intero.
Poi le scale,
due alla volta,
la vecchia
barricata
dietro for d’ogni misura
e d’ottone circondati,
mal distribuiti,
paura enorme in confusione;
e l’abbaio d’una Lilly
al risuonar dei passi,
curante in vero
solo il silenzio
d’abitudine e diletto;
La porta bianca,
ultimo piano;
la chiave inserita
con cautela,
brusco ogni rumore;
di volo
entrava nella stanza,
abbattuto in sol
di cigolar
maligno.
Al buio,
posava le sue chiavi
tra i fiammiferi
ed il libro,
ed accendeva la lampada sospesa,
tenue ed accogliente,
da sentor di noia
ed incubo
lontana.
Morbida lucìna,
mille braccia
a spogliar dell’ombre
la mobilia polverosa, i libri,
l’altra nera lampada scrivana.
Polvere saggia,
riconoscer di tortura
ed insistente,
tormento,
l’assenza provata
in pulizia di stanza tutta,
mal investita di riflesso
a incuspidir lo spigolo
e tensione.
E allor non più
nettare in fondo,
lume di bisogno sconosciuto,
ma lascivo poltrir
sotto la coltre silenziosa.
E così la mensola
accanto al letto,
i cofanetti in legno
susu,
precise geometrie
disposte d’invarianza;
radica artigiana
per fatica di paese
incisa,
e a man dipinta,
regalo d’amicizia
madre,
inimico sentire,
in doppio conquistata,
per lei,
come unico rinvenir
di fievole sorriso.
Ed uom baffuto,
magro,
immagine non vera,
rinchiuso
in di radica
pensiero;
occhio inerme
in nero di velluto
al dietro
relegato,
o in cofano raccolto,
come per strada
immagine
successe,
giorno lontano
ed incoscienza;
cofanetto polveroso
sulla destra.
Mai apriva,
non puliva,
non guardava,
persistente presenza
ad avvolger misterioso
in circostanza,
legame ardito
in mai trascuro;
o tatto,
mai,
pur in sempre sopraffatto
d’emozione e di disprezzo,
(per aleatorio) allo scordar,
timore acuto,
di recondito pensare.
Dimora l’altro,
cofanetto di sinistra,
per un petalo di rosa,
sol di un verde prato
dietro casa;
fragili ed antiche fibre
ogni volta riaffrescate
di cura e soffio lieve,
poi richiuse
in debito riposo,
prezioso
contenuto,
e nel silenzio.
Sedeva sul dondolo,
le mani in peso di ragione,
in cigolante senso d’abbandono.
Dal muro
i colpi di moti d’altra stanza,
ragazzi,
stranieri.
Ascoltava
innocua
la compagine sonora
di spesso muro
ed umido
frapposta;
la sentiva coricare,
spegnere la luce,
dormire, sognare,
grattarsi;
ed a luci in corridoio
or non più deste,
lento
ed or permesso,
frugava la dispensa,
al buio,
pan rubando
buono dei ragazzi,
due morsi in volta
e mai di più.
Passava la giornata alla finestra,
ad assorbir mondi in fermento
e rumorosi,
fumosi,
irritanti,
grigio plumbeo di colore
ed angosciosi,
in vetro sporco
rivestito.
Poggiava
alla balaustra polverosa,
soffiando l’invadente,
e gestiva seriamente
le sfumature di quel grigio
sempre uguale.
Poi i giorni di pioggia,
in fretta al passo
e solamente,
ovunque picchiettar di goccia
in suono.
Si svegliava
nel sonno,
ad ascoltar di musica
venuta,
in simbiosi tacita
raccolto
fra laniccio
polverume.
E da gocce in scroscio
udito,
s’alzava ad ammirar di gronda
il fiume vigoroso;
sorrideva, felice,
illuminato da baglior acquosi
di lampione,
diviso d’altro fronte
in fetta calda e diversa,
immersa in toni fievoli
e sottili;
antico patio
in simile,
e fontana,
patrizia,
cascata ampia ed armoniosa,
suoni grossi
e maestosa,
di giallo lume
pinta
in sabbia di lampione.
Poi
s’addormentava con grazia
ed ancor sorriso
alle sue labbra.
Notti speciali,
in luce e temporale
rivestite,
lavate strade
e sensazioni
di naturale ed efficace
onnipotenza.
Ma notti normali,
di stessa fam galeotta
e maniglia cigolante.
Sognava sempre
Una bolla di sapone,
in grande effetto vitreo
realizzata,
e lì rinchiuso.
Si cercava,
guardava,
e più guardava
più la bolla impiccioliva,
a catena, veloce,
d’impetuoso vortice
innescata
al primo sguardo;
schiacciato in niente
il contenuto.
E poi un campo,
ingiallito dal sole,
con un punto scuro da una parte,
perduto
nell’immenso complemento;
e più s’avvicinava,
veder
rimpiccioliva
il punto
incomprensibile e minuto.
Poi un uomo,
appoggiato
west
in spigolo di villa,
piazza in sol cocente
di paese
e polverosa,
ampia;
un uomo dai capelli bianchi,
i baffi bianchi,
le braccia in croce
sopra il petto.
Lo conosceva,
quel signor di contro porta
sul pianerottolo infantile;
lo conosceva bene,
ma non rispondeva mai;
gli chiedeva d’altro viso,
d’entrambi conosciuto
e lui convinto;
ma il signor canuto in pelo
non spondeva
a far d’ignoto
comportare,
mai visto o niente conosciuto,
con calma in sempre
e giudico tranquillo.
Allor correva a casa
in sogno sua
e per vero,
a sperar d’amico in cerca
per sua volta;
ma altra gente,
altri inquilini
per quali ovvio
di natura
lì trovarsi.
E l’uomo sparito,
la casa sparita,
la piazza senza più paese.
E di nuovo
il quadrato ingiallito dal sole,
il punto ad imploder d’ogni sguardo,
inghiottìo di campo
in vertigine di gorgo.
Si svegliava,
arrabbiato ed innervosito,
con le mani in vel di soffio
irrigidite;
dolore,
tormento d’ogni notte
in sintonia di campo
ed uom canuto;
o bolla in vitro di sapone.
Le strusciava sul pigiama,
delicato,
poi di caldo pube
circondava,
in tenera accoglienza
preparato.
La mattina
era avvolta dal grigiore delle mura
spunto da fessura di persiane;
decideva d’alzarsi,
unisono
in frenata di rimorso,
incombente il passo
d’altri desti,
o notturno agonico incombente
e non smaltito.
Pesante,
rigirava in letto
a maledir vergogna ed indolenza,
la rinuncia odierna
dell’adesso
sempre in dopo relegato,
alzar di membra
attimo
invadente.
Fissava le crepe del soffitto,
disposte strane
a profilar di uomo
in nudo,
grasso,
addormentato.
Scopriva ogni mattina
il naso
sempre uguale e inverso,
più gonfio o raggrinzito,
malformato in smorfia
d’ogni viso;
e poi il petto,
flaccido,
in imitar di crepa
alla perfetto,
ed il buzzo prorompente,
a nasconder magistrale
i genitali soffocati.
Che giorno fosse,
domandava
appen destato;
perchè,
motivar di permanenza sul soffitto.
E la figura
uomo,
rispondeva,
in tono di qualcuno già passato,
avvezzo al dubbio
e di tal genere.
Ben ti voglio,
gli pensò d’un mattinar comune;
si portò al di sotto della crepa,
e spostò l’anca della finestra,
disposta
odiosa
a picchiar di luce
in viso di figura;
poi si guardò
nel quadretto
appeso
ad intento d’importanza
manifesta;
il riflesso era opaco,
otturato per polvere
e sbadigli;
ma riuscì a veder
profilo
somigliare quella crepa
sul soffitto.
Ben ti voglio
gli pensò;
tolse
scarna
ogni mobilia,
ripulì con cura il pavimento
e stese la coperta del suo letto
in sotto di figura,
angoli aggiustati
a non uscir di tratto
dal perimetro di lana.
Controllò e ricontrollò,
per certo ed assoluto guadagnare;
poi pose il quadro
al centro del tappeto,
con cura e gentilezza
maneggiato.
Così rimasto, poi,
di giorno ed anno in polvere
inghiottito,
subentro in morfologico di stanza;
e non capiva
l’aprir mancante
di finestra,
in caldo afoso
debito
gigante.
Provava e non,
bloccato ancor in mente
da vago triste senso
e tremor di mano intenso,
pur propensa mano
alla maniglia,
nel pensiero.
Allor deluso
coricava in nuovo
ad osservar la crepa nel soffitto,
scoprir
particolare in lineamento.
Occhi socchiusi
a volte
od irridenti,
altre
in maggior verso,
aperti immobili
in assente atteggiamento,
di conquistato apatico
sembrare.
Guardava,
riguardava,
con gli stessi occhi asettici e confusi,
e piano la figura dissolveva
lasciando il posto,
esanime,
a spaccato di soffitto
malridotto.
Quei giorni
passava in dondolo
e seduto,
chiuso nel buio della stanza
a fissar del muro
lì davanti.
Dondolava noncurante
stropicciando le mani fra di loro,
per sudore appiccicoso
dilaniare,
a posar molesto
in nuovo
il peso e la ragione.
Fuori,
i rumori frenetici
strombazzavano continui,
e martellante
insieme
invadevano
il pensiero.
La fila d’auto,
disordinata in chiasso,
e la vedeva,
inserita in usuali geometrie
nel muro bianco e spoglio
sua attenzione;
le urla di ragazzo,
lo sbatter di coperchio
d’immondezza,
cornice
di realismo
spregiudicato ed insolente.
A volte,
il lamento di sirena
d’ambulanza;
s’attorcigliava
al frastuono della fila,
e le mani si serravano,
spaventate e nervose,
in apatia completa di persona.
Non sopportava
feroce
il suono e malinconico,
il senso di perduto
in accompagno,
al nuovo rimbalzar
sulle persiane.
Sapeva un male,
in fuga e lì costretto,
rincorso,
uman senz’uomo,
da corpo in anima
detratto.
Sapeva altri condotti,
in gara attivi
e finalmente,
distanti,
orgoglio di suono
in altri superiore.
Sapeva il resto,
parlare oppur sorridere
giocondo,
al declino dei diritti
dispensati.
E sapeva
una madre nel dolore,
piegata
dal peso delle lacrime,
trascinata al fondo
di un baratro infido e sottile;
madre non più madre,
donna in assenza di speranza;
una mano impazzita
che tocca sui fianchi,
le tempie,
ovunque,
per non trovar calore
o corpo vivo,
ma volontà
di un esistere finito
col diradarsi di uno squillo di sirena.
La stanza s’empiva d’ella e sofferenza,
permeavano
quelle stesse lacrime pesanti,
inondando l’angolo
d’angoscia furtiva
ed incompresa.
Il dondolo si era fermato,
le mani disgiunte,
lo sguardo
sempre
confuso nel muro.
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