Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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III

 

 

Dormì sul dondolo,

lentamente trasportato al sonno

da un oscuro senso etereo

in dispersione,

spanso

buio

nel buio della stanza;

le mani

ancor serrate,

ferree in presa

alle spalliere cigolanti,

sudate.

 

Di primo sguardo,

un incontro in muro si passione,

grande, immenso,

bianco,

a condannar di vista

la ragione;

e martoriato

in solchi,

monticini, fori,

graffi, striature,

in veloce pennello

e pur distratto,

non riemarginate.

Ogni graffio,

un graffio sul viso,

lucido di umori

e secrezioni,

ed ogni foro,

fitta

in dolore di costato,

notte scomoda

e letale;

ma un bianco

colore

a giganteggiar

di tutto,

pronto ad ingoiar difforme

o cicatrice,

passione ed ogni senso,

con la stessa

ingordigia

immensa

d’evento superiore.

 

Ed il fuori cominciava,

fermentar di suoni

e verso

d’oltre le persiane;

le guardò,

di consuetudine obbligato

e nuova luce:

raggi pallidi

e timore,

penetrati in striscio

orizzontale,

aghi in spirito

pungenti

nell’oscuro della stanza.

 

E molestia

feroce

e terrorismo,

un rumor d’ambiguo

ed agghiacciante,

presenza

d’improvviso materiale

in stasi vetile

di mura.

Acuta spina,

orientar sperduto

e la coscienza;

doverosa mossa

guardar del fatto,

scoprir motivo

e vivo

tal rumore,

presente,

ma priva di coraggio

l’intenzione.

Lotta intestina

nobbe

d’immobile infrancato

ad ogni agonico rifiuto,

negato in rivelar

mistero

sì agghiacciante

e prepotente.

Voltar finale,

capire,

pagar dovuto prezzo

all’acuto di tensione

in cresco al solo di pensiero,

guardare;

ma le membra

immote

a non reagir di velle,

sul dondolo intricate

d’eccessivo peso

e sconosciuto.

E riprovava, di nuovo,

statuario in posizione

a riempirsi d’impotenza,

nuovo tentato,

martirio,

il cuore a sobbalzar di petto

affaticato ed atterrito.

Ed intanto la presenza

incombere assassina a quelle spalle,

respirare,

rubare d’aria

e spazio

come despota malvagio;

e frugare

mattanza

fra le membra sconosciute,

scavar di sotto pelle

con rabbia e con ardore,

a bruciar di tutto ciò

che non compete;

 

No;

di scatto volse

decisivo,

risoluto ma sfinito

e pronto al tutto,

per nullità destino

sentore d’imminente.

Nessun segno,

presenza

a separar di porta chiusa

e propri occhi,

bianca porta,

confusa nel dolore delle mura

graffi e violenza

in solchi

e fori piccoli,

bianca,

intatta,

tranquillar di sotto arco

incappellata,

solenne e mondana

in lume di cucina.

 

Si abbandonò di peso

allo schienale

in aspetto immobile

di notte,

muro

ad inghiottir

di lui davanti.

Anta prima

saracina,

gli spazzini,

strombazzar furenti

clacson,

dietro stretti,

e prime voci,

i buongiorni.

Ed il muro,

grande,

bianco,

le campane della chiesa

al frastuon mischiate

di rientro,

grida,

ragazzini uscir

di scuola accanto;

la fame,

trascurata e dolorosa,

a persister trascinata

per morso precedente,

precedente

ed altro

ancora,

inevitabile oblio

d’assentere costante.

Ed il muro su tutto,

a sconfigger sensazione

e deviazioni,

volontà,

pensieri appen nascenti

a caricar di peso

e d’ulteriore

il cigolar della poltrona.

 

L’oscura

notte

arrivò silente

in dietro alle persiane,

inghiottendo d’aghi

il luminoso pavimento,

ed i riflessi in porta

di metallica maniglia;

s’accorse per la calma

a piano

impadronir di dita in presa,

e ricordo,

amar lasciato

in gusto scuro di passato,

mente sconfitta

eppur delusa.

Altro sguardo

in carico d’inerzia

al muro di passione,

bianco sconvolgente

e coinvolgente insieme,

piccoli fori,

graffi,

e le immense,

tristi ferite,

sublimate

in facciata di tinta

uniforme

ed indolore.

Poi si alzò,

lento,

in sicuro appoggio

più che d’anca,

ceder di comunque

atrofizzata;

profondo,

frizzante,

respirò

a riempir d’ostile carica

essenziale,

inciso

ritmar fino ai polmoni

d’insensata repulsione;

si chiese,

e alcun ragione

perchè di gesto

arduo e doveroso,

fatica immensa

a sopportare.

Debole,

affamato,

finalmente

s’adoprò

in cerca di mangiare,

stabile quilibrio guadagnato,

e respiro

in senso di tranquillo.

 

Duro pane

a masticare,

rivelazion d’immonda mensa,

ed ancor impronte

odori,

svaniti cospetti

a dimorar di mala cura

in mar di bricioli

e stoviglie;

ed acqua,

avido bisogno,

alla cucina.

Strano colore

e tale stanza,

risuon in tono di sinistro;

d’un tratto,

dipinto

contenuto

in tela grande e antica,

a dimension traslato

per man sapiente

ed impressione ignota.

La luce,

infusa ad arte

in fondo smorto

e polveroso,

ritoccar di ver profilo

e singola mollica;

e segge,

scomposte,

quasi sembrar

d’ancora piega

in corpo che si alza.

Arte,

lorda cucina

di spaghetti e sugo,

e frigo,

dipinto in angolo

com’ogni vero

o certo.

 

L’immagine frustò

nella coda dello sguardo,

di ver per certo

molestato,

diroccando perenne

di malvagio,

briciole di vita

pur passata,

e tali impronte.

La luce scomparve

al rumore di un bottone

e tutto,

niente,

tornò distante

e sconosciuto.

Buio;

intorno in corridoio,

e dentro,

fra le mura della stanza,

a fondo nel silenzio

padrone d’ogni spigolo;

peso irriverente,

spaventoso,

intrigante,

ossessivo;

come un urlo

terrore incontrollato

in sprigiono d’anima

e tortura;

urlo di gola,

caverna di gigante.

 

Tappò le orecchie

i palmi di man sudate,

e agonizzante

la bocca spalancò

ad urlar silenzio

ancor più grande

ed appesante,

impotenza

di vittima

in ampiezza di deserto.

 

Ma buio

ancor,

tentacoli,

veleno ad investir di senso ed ossa,

ogni respiro;

si gettò a terra,

rannicchiò fetale

a scudar di proprio corpo,

al petto i ginocchi

ed i gomiti d’intorno,

le mani lenir

delle sue orecchie.

I tentacoli scomparvero,

aldilà delle sue palpebre socchiuse.

In un attimo,

improvvisi.

Il silenzio diventò silenzio,

voce di calma

corposa ed accurata;

il buio

l’essenza di una luce che non c’era.

 

Con discrezione

Alzò in piedi,

faticando le gambe

indolenzite e distrutte;

poi se ne andò,

varcando il buio

assente,

ed ancora in ciabatte.

 

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