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III
Dormì sul dondolo,
lentamente trasportato al sonno
da un oscuro senso etereo
in dispersione,
spanso
buio
nel buio della stanza;
le mani
ancor serrate,
ferree in presa
alle spalliere cigolanti,
sudate.
Di primo sguardo,
un incontro in muro si passione,
grande, immenso,
bianco,
a condannar di vista
la ragione;
e martoriato
in solchi,
monticini, fori,
graffi, striature,
in veloce pennello
e pur distratto,
non riemarginate.
Ogni graffio,
un graffio sul viso,
lucido di umori
e secrezioni,
ed ogni foro,
fitta
in dolore di costato,
notte scomoda
e letale;
ma un bianco
colore
a giganteggiar
di tutto,
pronto ad ingoiar difforme
o cicatrice,
passione ed ogni senso,
con la stessa
ingordigia
immensa
d’evento superiore.
Ed il fuori cominciava,
fermentar di suoni
e verso
d’oltre le persiane;
le guardò,
di consuetudine obbligato
e nuova luce:
raggi pallidi
e timore,
penetrati in striscio
orizzontale,
aghi in spirito
pungenti
nell’oscuro della stanza.
E molestia
feroce
e terrorismo,
un rumor d’ambiguo
ed agghiacciante,
presenza
d’improvviso materiale
in stasi vetile
di mura.
Acuta spina,
orientar sperduto
e la coscienza;
doverosa mossa
guardar del fatto,
scoprir motivo
e vivo
tal rumore,
presente,
ma priva di coraggio
l’intenzione.
Lotta intestina
nobbe
d’immobile infrancato
ad ogni agonico rifiuto,
negato in rivelar
mistero
sì agghiacciante
e prepotente.
Voltar finale,
capire,
pagar dovuto prezzo
all’acuto di tensione
in cresco al solo di pensiero,
guardare;
ma le membra
immote
a non reagir di velle,
sul dondolo intricate
d’eccessivo peso
e sconosciuto.
E riprovava, di nuovo,
statuario in posizione
a riempirsi d’impotenza,
nuovo tentato,
martirio,
il cuore a sobbalzar di petto
affaticato ed atterrito.
Ed intanto la presenza
incombere assassina a quelle spalle,
respirare,
rubare d’aria
e spazio
come despota malvagio;
e frugare
mattanza
fra le membra sconosciute,
scavar di sotto pelle
con rabbia e con ardore,
a bruciar di tutto ciò
che non compete;
No;
di scatto volse
decisivo,
risoluto ma sfinito
e pronto al tutto,
per nullità destino
sentore d’imminente.
Nessun segno,
presenza
a separar di porta chiusa
e propri occhi,
bianca porta,
confusa nel dolore delle mura
graffi e violenza
in solchi
e fori piccoli,
bianca,
intatta,
tranquillar di sotto arco
incappellata,
solenne e mondana
in lume di cucina.
Si abbandonò di peso
allo schienale
in aspetto immobile
di notte,
muro
ad inghiottir
di lui davanti.
Anta prima
saracina,
gli spazzini,
strombazzar furenti
clacson,
dietro stretti,
e prime voci,
i buongiorni.
Ed il muro,
grande,
bianco,
le campane della chiesa
al frastuon mischiate
di rientro,
grida,
ragazzini uscir
di scuola accanto;
la fame,
trascurata e dolorosa,
a persister trascinata
per morso precedente,
precedente
ed altro
ancora,
inevitabile oblio
d’assentere costante.
Ed il muro su tutto,
a sconfigger sensazione
e deviazioni,
volontà,
pensieri appen nascenti
a caricar di peso
e d’ulteriore
il cigolar della poltrona.
L’oscura
notte
arrivò silente
in dietro alle persiane,
inghiottendo d’aghi
il luminoso pavimento,
ed i riflessi in porta
di metallica maniglia;
s’accorse per la calma
a piano
impadronir di dita in presa,
e ricordo,
amar lasciato
in gusto scuro di passato,
mente sconfitta
eppur delusa.
Altro sguardo
in carico d’inerzia
al muro di passione,
bianco sconvolgente
e coinvolgente insieme,
piccoli fori,
graffi,
e le immense,
tristi ferite,
sublimate
in facciata di tinta
uniforme
ed indolore.
Poi si alzò,
lento,
in sicuro appoggio
più che d’anca,
ceder di comunque
atrofizzata;
profondo,
frizzante,
respirò
a riempir d’ostile carica
essenziale,
inciso
ritmar fino ai polmoni
d’insensata repulsione;
si chiese,
e alcun ragione
perchè di gesto
arduo e doveroso,
fatica immensa
a sopportare.
Debole,
affamato,
finalmente
s’adoprò
in cerca di mangiare,
stabile quilibrio guadagnato,
e respiro
in senso di tranquillo.
Duro pane
a masticare,
rivelazion d’immonda mensa,
ed ancor impronte
odori,
svaniti cospetti
a dimorar di mala cura
in mar di bricioli
e stoviglie;
ed acqua,
avido bisogno,
alla cucina.
Strano colore
e tale stanza,
risuon in tono di sinistro;
d’un tratto,
dipinto
contenuto
in tela grande e antica,
a dimension traslato
per man sapiente
ed impressione ignota.
La luce,
infusa ad arte
in fondo smorto
e polveroso,
ritoccar di ver profilo
e singola mollica;
e segge,
scomposte,
quasi sembrar
d’ancora piega
in corpo che si alza.
Arte,
lorda cucina
di spaghetti e sugo,
e frigo,
dipinto in angolo
com’ogni vero
o certo.
L’immagine frustò
nella coda dello sguardo,
di ver per certo
molestato,
diroccando perenne
di malvagio,
briciole di vita
pur passata,
e tali impronte.
La luce scomparve
al rumore di un bottone
e tutto,
niente,
tornò distante
e sconosciuto.
Buio;
intorno in corridoio,
e dentro,
fra le mura della stanza,
a fondo nel silenzio
padrone d’ogni spigolo;
peso irriverente,
spaventoso,
intrigante,
ossessivo;
come un urlo
terrore incontrollato
in sprigiono d’anima
e tortura;
urlo di gola,
caverna di gigante.
Tappò le orecchie
i palmi di man sudate,
e agonizzante
la bocca spalancò
ad urlar silenzio
ancor più grande
ed appesante,
impotenza
di vittima
in ampiezza di deserto.
Ma buio
ancor,
tentacoli,
veleno ad investir di senso ed ossa,
ogni respiro;
si gettò a terra,
rannicchiò fetale
a scudar di proprio corpo,
al petto i ginocchi
ed i gomiti d’intorno,
le mani lenir
delle sue orecchie.
I tentacoli scomparvero,
aldilà delle sue palpebre socchiuse.
In un attimo,
improvvisi.
Il silenzio diventò silenzio,
voce di calma
corposa ed accurata;
il buio
l’essenza di una luce che non c’era.
Con discrezione
Alzò in piedi,
faticando le gambe
indolenzite e distrutte;
poi se ne andò,
varcando il buio
assente,
ed ancora in ciabatte.
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