II
Il muro dell’origlio
si spogliò poi
d’impronta lieta
e dei ragazzi.
Li sentì una mattina
parlare d’alta voce
in altra sponda,
grasso signore e fatiscente
in loro detto,
invaso in sol di sete per pecunia,
che poco lasciava
al sembrar natura d’uomo;
idrovora,
bocca diretta in odore di moneta,
ovunque scosta
e in quale veste.
Litigio in merito di strappo
per la sua bolla di sapone,
ed il campo ingiallito dal sole;
sentì l’uomo
rinfacciar con cattiveria
uno scorretto comportare,
fastidioso in termine di voce,
e volgarmente cacciar
di loro e razza tutti.
Ed al posto un giovane,
di pelle in vago
d’altro lido;
lo incontrava ogni mattina,
al portone del palazzo,
atteso al compagno di mestiere.
Tacita intesa,
con lui,
sguardi,
espressioni convincenti,
sincerità
puntura ad occhi entrambi
ed assonnati.
Pochi attimi,
di silenzio intriso
in emozione,
significato,
avvolti dal fresco stimolar
di brezze leggere e persistenti;
poi il distacco,
menti sollevati
ad urlar saluti
e profondi vuoti
d’assordanti parole,
le mani immerse
in un candido abbraccio.
E un dopo non diverso
riempiva l’attesa di un flusso
così puro e sincero,
mani a toccar la pelle
e non rigetto,
d’altro contatto
unico concesso.
Strano alone,
sensazioni,
impronta misconosciuta
in caratteristica di mente,
recondita
nel grigio del suo mondo;
trascinava con sè
riesumando leggerezza e verità
ad ogni passo sulla via;
ed ovunque
incontro di logico motivo
per continuo,
brivido in sogno,
e la follia
di quel contatto
in nuovo per assaggio
regalata.
La bolla di sapone,
inghiottir d’amara notte,
non stringeva più
istantanea d’inviluppo
e d’agonia.
Cominciava,
di solita ferocia
e restrizione,
per poi fermarsi
in minuta dimensione
ma costante;
e piano piano
il contenuto,
delineato a maggior fila
in limpido di bolla;
un uomo piccolo,
nudo,
immobile e costretto.
La bolla cominciò
d’impulso
in elastico sformare,
notte dopo notte
regrediva d’implosione,
espandendosi
veloce
ed inaudita.
Ma una mattina,
bolla d’attanaglio
quasi infranta,
si svegliò
in assalto al tono di finale;
di fretta
ancora
ad incontrar le mani
e senso di straniero,
in tregua notturna
realizzati.
Le scale,
in getto,
unico, altissimo scalino,
inciampando ad ogni passo
senza posa,
per brama
di elettrico suonar
di serratura.
Ma vuoto funereo
ed uniforme tono,
collassar di spasmo avuto
e dell’attesa;
le mani,
non erano,
la pelle assente,
uom disperso
e tal pensiero.
A lungo attese
al portone del palazzo,
attento
d’ogni piccolo rumore
ovunque provenuto;
ad esso
inutile
sedeva
in atrio di piastrelle,
a pianger
d’umile e pudore
la disperazione radicata
nel profondo.
Vane lacrime
e giornate
spese,
in fede di incontrar
liberatorio infranto;
e la bolla
nuovar
d’imperscrutabile
notturna,
inghiottire implosa ed inghiottirlo,
in fulmineo gorgo
e virulento.
Quell’uomo morto,
avrebbe poi saputo,
voce d’origlio
in nuovo per la stanza,
rigido,
abulico,
interesse quasi
ormai
perduto
in lacrima infelice,
da piastrelle d’atrio
ed i vestiti
assaporata;
giù di scale alla novella,
lo sguardo assente
in attenzion dispersa,
buio,
immerso nel sapore della notte
a filtrar
d’angusto lucernario.
Il portone,
schiocco a trasportar
di senso lungi
e disperato,
rinchiuso
delicato,
per riaprir di nuovo,
profondo sospiro ed occhi invessi,
al suono elettrico ed acuto
del lucido bottone.
Buia la strada,
d’incastro per cornice
nell’ingresso del palazzo;
e sola
luna,
tenue bagliore
indefinita
in fa respiro,
spicchieggiar d’esterno
alle scale
penetrato.
Respirava
Lui,
per la stessa luce
a illuminarlo dentro,
in ricordo
di mattine fredde
ed assonnato,
avvolte mani
d’un contatto
ver’intenso.
Matone la testa
al passamano,
a fissar d’intrinseco motìo
l’apertura al buio
dell’ingresso;
il pensiero impregnato
a spolvero di muro,
in effetto altisonante
d’ogni alito ventoso.
Lento, inerme,
fluttuava nel silenzio,
a levigar d’orecchio
il legno
in carezza di calore,
malinconico e ferito
in dita a sfioro
di calzoni.
Ancora
cielo
nello spicchio della porta,
cielo, luna,
e scale di palazzo
in risalita,
spalle al muro
e testa in appoggio di parete,
verniciato
argine
in trama di passione.
Rientrò la stanza
guerreggiando d’insolita bestemmia,
silenzio in tacita rivolta;
fra le mani
il cofanetto di radica invecchiata,
sinistro in mensola disposto.
Con cura ripulì
di nuova polvere
invadente,
soffiando
delicato
respiri caldi e vaporosi;
poi aprì
a porre d’oltre petalo seccato
una figura di giornale
raccolta all’incastro nel portone,
e di vento abbandonata
a tal destino.
Bicicletta,
triste imago
d’amputi
manubrio e ruota anteria,
dispersi
in altro lido
o alla deriva.
Triste imago
in tremito di mani,
profondo senso
a lungo amaro;
depose in raso scatolato,
di rassegnato aspetto
e consistenza;
socchiuse gli occhi
e con rammarico
scomparve il rosso vivo
del cofano d’interno;
il petalo e la bicicletta
rinchiusi con lui.
Nuovo
in abbandono
sul dondolo invecchiato,
polvere maligna in posa
ad ogni apatico frangente.
Ben più grossa
Polvere
e pesante,
d’or copriva
l’azzurro opaco
in tel consunta;
ossa
e pelle,
vesti fatiscenti
e scomparso vestito,
forse piega
in stessa stoffa;
intorno
silenzio,
smosso unico
per cigolio continuo,
lamentato peso
di polvere abbondante.
Dal muro
ancor parole
in dismesso tono,
e poi risate,
a penetrar d’intonaco
violento
ed esaustivo.
Allor martello,
ancor seduto
immobile
d’onesta dimensione;
picchiava
l’intonaco candido e rugoso,
reo
malgrado
d’eco irruenta
e dispettosa.
Peso
maledetto,
il martello scivolava
ad ogni colpo
di man sudate e indolenzite,
mosse di disprezzo
per tirannica violenza;
ma immobile sul dondolo,
tessute dita
d’intrigo atto
e dinamismo.
Il ferro martellava
feroce e continuo;
le mani immobili,
le mani sudate
a picchiare quel muro.
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