I
Alzò le mani improvviso,
repentino e spaventoso
per crudeltà d’immagine
comparsa
e scricchiolio di passi
sull’umido terreno.
Ferruleo sulla schiena
sentì vibrar
in tono vigoroso,
ed un qualcosa
invitare senza scelta
a man levate.
Si voltò di bianco preda
ed avvampato di terrore,
sconosciuto terrore,
sinistro anche il solo
resistere all’istinto
della fuga,
potere di salvezza
certo avuto.
La paura,
quel momento,
mai era successo
e mai potuto esser
sì creduto.
Un uomo alto, baffuto,
dalle forme strane e confuse,
per buio ed emozione
latente spazio ai sensi;
un uomo ad occhi luminosi,
spigoli d’eterno
in ombra totale
circondato.
Alzò lo sguardo
con un gesto invito
per risposta in diritto di vorrei.
Uomo, sorpreso,
la testa reclinata su di un fianco,
non rispondi;
ai miei pensieri
ti avvicini,
lentamente soppesando le
intenzioni.
Tu paura?
Magari cacciatore,
che al vagar di questo buio
dirige le sue mire
ed il suo passo.
Ma non fucile tra le mani;
non doppietta lucida e ingrassata,
a cura dopo mesi
di silenzio riposato;
non sacche in pelle e colme,
piume e carni da gustare,
dopo,
domani,
ingraziate dal brusio del fuoco
al casolare.
Ancora ti avvicini,
a scoprir di fallo ed arma
la mia giacca.
Tu arma;
io dolor a non mostrar disagio,
o niente da temere.
Eppur non sembri aver
mal’intenzione,
seppure d’arma avvolgi
il tuo mirare.
Sorrido, vedi;
tranquillo e familiare
sorreggo le movenze
quasi in anni
d’amicizia
perpetrato.
Tutto così assurdo,
privo in senso,
beffardo il protagonismo
e non gradito.
Angusto,
non tu, mio sconosciuto.
Ed intanto continua il tuo mirare,
vicino,
puntato sempre contro
e non cordiale.
Chi sei, chi sei.
Deciso lo sguardo
sprofondò in quegli occhi,
intento di bisogno
a scoprire infine indizio,
traccia,
debolezza od altro segno.
Quegli occhi;
rassicurar non possono
il bisogno: tetri, profondi,
di stento malcelanti
malinconia e rigetto in specie,
turba lontana e verace,
altrettanto.
Ed in questa rispecchiava,
fedele impronta già calzata,
tornito d’amarezza e delusioni
in solo concepite.
D’odio pervaso
stesso ben sapeva,
fusione in un tratto
d’unica persona;
quegli occhi, quegli occhi,
inghiottivano di fatto
ogni diverso
nell’impatto malinconico
di specchio.
Io ferir di tue ferite
avvolgermi ora sento
da un manto fluido
miserabile e dolore.
Capisco
ed ora ancor più mi attanaglio;
capisco,
costretto nella morsa
di braccia e membra prensili
a carpire.
Capisco,
ed una voce lontana, potente;
non posso.
Non posso a quella voce
martellante continuar
di propaganda.
Ecco,
mi aggrappo violento alla ragione
dirotto la mia angoscia
per non precipitare:
cattura quell’abisso vitreo
e misterioso.
Ma continuo a guardarti,
cacciar d’impertinenza
il riconoscersi vergogna.
Forte sapore;
ancor più cupi
gli occhi e la figura.
Dimentica.
Dimentica i pensieri, l’arma
l’ossessione.
Ho freddo.
Lascia almen sedere,
che la roccia non dorrà
del mio pesare.
Fredda roccia e inospitale.
Tiepido almeno alle mie dita
il vapor del respirare.
Si piegò
cullando di se stesso l’impotenza;
coraggio, caldo,
tarda la venuta ed il sollievo,
ma un violentar di colpo estremo, sonoro,
a rimestar d’antico passo
e rinsavito ieri.
Guarda, mi hai ferito;
guarda il sangue sgorgar di denso,
e colorar di rosso alla mia mano.
No, di nuovo non colpire!
Ti disprezzo,
a ondate.
Urlo lurido vigliacco
ma non esce.
Quale vigliacco
Guarda
le lacrime rigano il mio volto,
il vento ghiaccio le condanna.
Tristezza, si, di nuovo,
persecuzione del destino
ed ancora sorte avversa.
Socchiuse gli occhi,
il mento volse
all’oscuro fascinoso sovrastante,
notte di freddo
e vento per mantello.
Quale sera dei vent’anni andati
ad invischiar la piazza ed il paese
di compagnie di solito di sempre
e l’amicizie,
mondo esclusivo e ragion d’io,
per qual che fosse l’io
nel tutti uguale.
Tanto divertivi nell’oscurar
dei grandi guai
e delle grida
di madri infuriate a turno
per ognuno,
padri stanchi e consumati
o sorella alfine malata di disprezzo.
Quale gioia,
folle cena ormai passata,
a respirar di libere boccate,
d’evasion momento
e vita vera,
e non illogico il passar di ore.
Tu non sai, mio sconosciuto,
o forse sì,
il canto che investiva ogni giubbotto,
sempre d’uguale e stesso
a timbro riconoscer di figura.
E mai soffristi
di Giovan ricordo,
com’io sol ora
dedito mi accingo,
isipido ed amico
poco luminoso,
di bar e pulizia
credito e vantaggio.
Ancor saluto
quel gestor sapiente,
e mai saprà,
lo scarso illuminato,
intuito e gentilezza
che non ebbe
e mai volemmo.
Ciao Giovanni;
e con te quel Mirko
forte ragazzo e sano,
corrotto solo
d’emozion feroce e pura.
Tu Mirko,
le grida perse
di madre
forse
unico freno,
non cambiasti
e nè per noi,
in compagnia soltanto riso
l’essere tuo privo di ritegno.
Nobil causa
la mano ti prendeva,
un rider frutto
per coraggio possedere,
all’indomani.
E quale meraviglia
mai non fu
il controllo e la pazienza
che per noi donar salvezza
tu perdevi,
degenere la beffa
o la tua lite.
Evidente il tuo vestir
di cose strane,
puntuale additamento di sguaiati;
ma sempre e certo
il verso d’inviato:
non facile rischiar di tutti
il coro ed i giudizi.
Come all’or che d’oro fuso
investe i tuoi capelli,
micidiale colpo ed inventiva;
ohi tendenza all’evasione,
quale alto il punto raggiungesti.
Non piacevole guardarti,
d’anni e d’abitudine convinti
di natura nera la peluria.
Quali risate
e le presenze fugaci e di passaggio,
sbaglio madornale o libertà!
Il cuor si sciolse
ad immagini sì vere,
e gli occhi chiuse
per non disperdere lontano
ormai quel mondo,
diverso, oggi, o forse allora.
E così vero.
Mio sconosciuto.
Non sai di un Ale
sempre raffreddato,
amato toccasana di ogni brivido
o di dubbio, o vuoto portafogli.
Tutto aveva, e lo sapeva,
a spargere poi bricioli di gioia
in mezzo al mucchio.
Astuzia o il rinnegar di altre intenzioni
il posto d’altri accanto guadagnato,
in macchina o nel cuor
verbo raggiunto.
Immenso quel gradin che usar separa
mortali spettatori e tale verbo,
succube patron di sua famiglia:
re non può
senza sconfitti
e gradino alcun non v’è
senza terreno.
Lacrime mie,
mio sconosciuto,
malinconia respiro
e rattristito,
da quei ricordi punto
inusitato.
Ed altri,
altri ancor
in mente mia risuona la parola.
Gli altri.
Come di un Walter
sincero ed incisivo,
solo di mestier
diverso e saggio.
Bello, di scura carnagione
e man di solo in gelatina
generose,
capello da fiume soffocato
ed all’indietro,
sardo d’origine e emozione.
Volgare,
d’ingenuo travestito,
o alla Giulian bandito,
a colmar sensuale il vuoto
di carattere natura.
E poi Mario,
buono d’intenzione
e deludente risultato,
pronto sempre al nuovo
ed al rimpianto.
Mario,
signore sconosciuto;
di palcoscenico travolto
a calpestar barba imponente,
e capelli,
formale vaporume
pur negroide vagamente;
splendido modello
fuori dose, poi,
d’uman bellezza
e qualità soppresse;
sorpresa, imbarazzo,
dovere il decantar
pur d’illogica occasione,
forgia ed altrui stima, sguardo;
perversa sensazione.
Ed elogio al più
d’eccesso sconfinato,
fu sorpresa dell’ipocrita ragione
il mordere un antico ormai lontano,
anima recessa al solo scopo
di viver di nascosta creatura.
Ricordo, sai,
di tutto il lui ferito, scomparso,
le ciglia almeno
ancora brutte e folte,
riuscito inganno
e singola emozione;
e di singola tensione,
al cuor e sentimento riscoperto,
ogni volta a chiacchiere
in venate sere
di malinconia diffusa.
Strane sensazioni
percepir malessere e ingiustizia
di solito e vagantesi
in quell’aria;
dedurre
per trovar secche smentite,
ad altri uguale sorte regalata,
infausti di pensar oggi diverso.
Avvisaglia ardita allor concessa,
pescar di notte e solo
ed anche quiete,
soffrir mai dichiarato, stanco,
di muto pesce o solo baco.
Scosse la testa,
lento il movimento dondolante,
finale di un sorriso
per sollievo,
riposta rabbia ed unghie,
qual sollievo,
inutile ormai l’uso
e loro scopo.
E Cecco,
languido pensier passi davanti,
di sigaretta spento
e tristi occhi.
Difficile ragazzo,
e tenebroso insieme,
tenero,
fuliggine le ossa
e carne in meno,
timor di gesto
e la vergogna
d’emozione;
ira tua
il solo concepir
sentirti accanto.
Merito di can fra buoi
unico il saper di guida
e d’ottima fattura,
vagar riconosciuto
d’anima irrequieta.
Fumar peccato lo spinello;
tu per vana gloria
in angolo nascosto
e già calcato,
diverso sempre
ed uno al dì,
di prova in giorno
a novella facile mostrare,
per capir di stima, inventi,
la famiglia.
Di nuovo alzò lo sguardo
a danzar di vista seria
l’uomo ancor presente,
impassibile,
speranza del profondo
in tal momento.
Non so spiegar, signore
il mio momento.
Causa, tu,
per dolor tristezza
ed i problemi,
or unica ragion del mio non solo.
Soccombo, adesso,
tributo e dover
per solitudine alleviare
in tua presenza.
Son tuo, sì sia,
di feudo certezza e valvassore.
Spiegar non so, signore,
strano il tuo comportamento:
mi guardi, continui,
movimento alcun permesso;
e il non parlare,
rispondere,
il non voler preciso di qualcosa,
oziar d’arma investito
a controllo d’ogni mossa.
Ma allora?
Cosa spinge uomo,
gratuita la violenza
ed apparente senza scopo!
Cosa fulmina
guardar fra questi stracci;
il tuo passo
medesimo
e lontano al mio,
situazione strana
di passato sconosciuto;
che ti muove da dentro,
spinta inconcepibile e violenza!
Capisco soltanto
il succeder ripugnante di maniera,
forze dissolte in aria fredda
all’attanaglio;
e tu figura
assumer d’angoscioso aspetto
e più deciso,
giudizio quasi universale,
a condannar per tempo perpetrato,
l’impotenza non più simbolo
ed orgoglio personale.
Torno
dischiuso tra quel mondo,
mio signore,
a viver di ricordo conquistato.
Guarda;
le palpebre socchiuse.
Guarda;
trascino l’impeto, signore,
a naufragar di mare chiaro
e trasparente.