Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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I

 

 

Alzò le mani improvviso,

repentino e spaventoso

per crudeltà d’immagine

comparsa

e scricchiolio di passi

sull’umido terreno.

Ferruleo sulla schiena

sentì vibrar

in tono vigoroso,

ed un qualcosa

invitare senza scelta

a man levate.

Si voltò di bianco preda

ed avvampato di terrore,

sconosciuto terrore,

sinistro anche il solo

resistere all’istinto

della fuga,

potere di salvezza

certo avuto.

La paura,

quel momento,

mai era successo

e mai potuto esser

sì creduto.

Un uomo alto, baffuto,

dalle forme strane e confuse,

per buio ed emozione

latente spazio ai sensi;

un uomo ad occhi luminosi,

spigoli d’eterno

in ombra totale

circondato.

 

Alzò lo sguardo

con un gesto invito

per risposta in diritto di vorrei.

 

Uomo, sorpreso,

la testa reclinata su di un fianco,

non rispondi;

ai miei pensieri

ti avvicini,

lentamente soppesando le

intenzioni.

Tu paura?

Magari cacciatore,

che al vagar di questo buio

dirige le sue mire

ed il suo passo.

Ma non fucile tra le mani;

non doppietta lucida e ingrassata,

a cura dopo mesi

di silenzio riposato;

non sacche in pelle e colme,

piume e carni da gustare,

dopo,

domani,

ingraziate dal brusio del fuoco

al casolare.

 

Ancora ti avvicini,

a scoprir di fallo ed arma

la mia giacca.

Tu arma;

io dolor a non mostrar disagio,

o niente da temere.

Eppur non sembri aver

mal’intenzione,

seppure d’arma avvolgi

il tuo mirare.

Sorrido, vedi;

tranquillo e familiare

sorreggo le movenze

quasi in anni

d’amicizia

perpetrato.

 

Tutto così assurdo,

privo in senso,

beffardo il protagonismo

e non gradito.

Angusto,

non tu, mio sconosciuto.

 

Ed intanto continua il tuo mirare,

vicino,

puntato sempre contro

e non cordiale.

Chi sei, chi sei.

 

Deciso lo sguardo

sprofondò in quegli occhi,

intento di bisogno

a scoprire infine indizio,

traccia,

debolezza od altro segno.

Quegli occhi;

rassicurar non possono

il bisogno: tetri, profondi,

di stento malcelanti

malinconia e rigetto in specie,

turba lontana e verace,

altrettanto.

Ed in questa rispecchiava,

fedele impronta già calzata,

tornito d’amarezza e delusioni

in solo concepite.

D’odio pervaso

stesso ben sapeva,

fusione in un tratto

d’unica persona;

quegli occhi, quegli occhi,

inghiottivano di fatto

ogni diverso

nell’impatto malinconico

di specchio.

 

Io ferir di tue ferite

avvolgermi ora sento

da un manto fluido

miserabile e dolore.

Capisco

ed ora ancor più mi attanaglio;

capisco,

costretto nella morsa

di braccia e membra prensili

a carpire.

Capisco,

ed una voce lontana, potente;

non posso.

Non posso a quella voce

martellante continuar

di propaganda.

 

Ecco,

mi aggrappo violento alla ragione

dirotto la mia angoscia

per non precipitare:

cattura quell’abisso vitreo

e misterioso.

Ma continuo a guardarti,

cacciar d’impertinenza

il riconoscersi vergogna.

Forte sapore;

ancor più cupi

gli occhi e la figura.

 

Dimentica.

Dimentica i pensieri, l’arma

l’ossessione.

 

Ho freddo.

Lascia almen sedere,

che la roccia non dorrà

del mio pesare.

 

Fredda roccia e inospitale.

Tiepido almeno alle mie dita

il vapor del respirare.

 

Si piegò

cullando di se stesso l’impotenza;

coraggio, caldo,

tarda la venuta ed il sollievo,

ma un violentar di colpo estremo, sonoro,

a rimestar d’antico passo

e rinsavito ieri.

 

Guarda, mi hai ferito;

guarda il sangue sgorgar di denso,

e colorar di rosso alla mia mano.

No, di nuovo non colpire!

 

Ti disprezzo,

a ondate.

Urlo lurido vigliacco

ma non esce.

 

Quale vigliacco

 

Guarda

le lacrime rigano il mio volto,

il vento ghiaccio le condanna.

Tristezza, si, di nuovo,

persecuzione del destino

ed ancora sorte avversa.

 

Socchiuse gli occhi,

il mento volse

all’oscuro fascinoso sovrastante,

notte di freddo

e vento per mantello.

 

Quale sera dei vent’anni andati

ad invischiar la piazza ed il paese

di compagnie di solito di sempre

e l’amicizie,

mondo esclusivo e ragion d’io,

per qual che fosse l’io

nel tutti uguale.

Tanto divertivi nell’oscurar

dei grandi guai

e delle grida

di madri infuriate a turno

per ognuno,

padri stanchi e consumati

o sorella alfine malata di disprezzo.

Quale gioia,

folle cena ormai passata,

a respirar di libere boccate,

d’evasion momento

e vita vera,

e non illogico il passar di ore.

Tu non sai, mio sconosciuto,

o forse sì,

il canto che investiva ogni giubbotto,

sempre d’uguale e stesso

a timbro riconoscer di figura.

E mai soffristi

di Giovan ricordo,

com’io sol ora

dedito mi accingo,

isipido ed amico

poco luminoso,

di bar e pulizia

credito e vantaggio.

Ancor saluto

quel gestor sapiente,

e mai saprà,

lo scarso illuminato,

intuito e gentilezza

che non ebbe

e mai volemmo.

Ciao Giovanni;

e con te quel Mirko

forte ragazzo e sano,

corrotto solo

d’emozion feroce e pura.

Tu Mirko,

le grida perse

di madre

forse

unico freno,

non cambiasti

e nè per noi,

in compagnia soltanto riso

l’essere tuo privo di ritegno.

Nobil causa

la mano ti prendeva,

un rider frutto

per coraggio possedere,

all’indomani.

E quale meraviglia

mai non fu 

il controllo e la pazienza

che per noi donar salvezza 

tu perdevi,

degenere la beffa

o la tua lite.

Evidente il tuo vestir

di cose strane,

puntuale additamento di sguaiati;

ma sempre e certo

il verso d’inviato:

non facile rischiar di tutti

il coro ed i giudizi.

Come all’or che d’oro fuso

investe i tuoi capelli,

micidiale colpo ed inventiva;

ohi tendenza all’evasione,

quale alto il punto raggiungesti.

Non piacevole guardarti,

d’anni e d’abitudine convinti

di natura nera la peluria.

Quali risate

e le presenze fugaci e di passaggio,

sbaglio madornale o libertà!

 

Il cuor si sciolse

ad immagini sì vere,

e gli occhi chiuse

per non disperdere lontano

ormai quel mondo,

diverso, oggi, o forse allora.

E così vero.

 

Mio sconosciuto.

Non sai di un Ale

sempre raffreddato,

amato toccasana di ogni brivido

o di dubbio, o vuoto portafogli.

Tutto aveva, e lo sapeva,

a spargere poi bricioli di gioia

in mezzo al mucchio.

Astuzia o il rinnegar di altre intenzioni

il posto d’altri accanto guadagnato,

in macchina o nel cuor

verbo raggiunto.

Immenso quel gradin che usar separa

mortali spettatori e tale verbo,

succube patron di sua famiglia:

re non può

senza sconfitti

e gradino alcun non v’è

senza terreno.

 

Lacrime mie,

mio sconosciuto,

malinconia respiro

e rattristito,

da quei ricordi punto

inusitato.

 

Ed altri,

altri ancor

in mente mia risuona la parola.

Gli altri.

 

Come di un Walter

sincero ed incisivo,

solo di mestier

diverso e saggio.

Bello, di scura carnagione

e man di solo in gelatina

generose,

capello da fiume soffocato

ed all’indietro,

sardo d’origine e emozione.

Volgare,

d’ingenuo travestito,

o alla Giulian bandito,

a colmar sensuale il vuoto

di carattere natura.

E poi Mario,

buono d’intenzione

e deludente risultato,

pronto sempre al nuovo

ed al rimpianto.

 

Mario,

signore sconosciuto;

di palcoscenico travolto

a calpestar barba imponente,

e capelli,

formale vaporume

pur negroide vagamente;

splendido modello

fuori dose, poi,

d’uman bellezza

e qualità soppresse;

sorpresa, imbarazzo,

dovere il decantar

pur d’illogica occasione,

forgia ed altrui stima, sguardo;

perversa sensazione.

Ed elogio al più

d’eccesso sconfinato,

fu sorpresa dell’ipocrita ragione

il mordere un antico ormai lontano,

anima recessa al solo scopo

di viver di nascosta creatura.

 

Ricordo, sai,

di tutto il lui ferito, scomparso,

le ciglia almeno

ancora brutte e folte,

riuscito inganno

e singola emozione;

e di singola tensione,

al cuor e sentimento riscoperto,

ogni volta a chiacchiere

in venate sere

di malinconia diffusa.

Strane sensazioni

percepir malessere e ingiustizia

di solito e vagantesi

in quell’aria;

dedurre

per trovar secche smentite,

ad altri uguale sorte regalata,

infausti di pensar oggi diverso.

Avvisaglia ardita allor concessa,

pescar di notte e solo

ed anche quiete,

soffrir mai dichiarato, stanco,

di muto pesce o solo baco.

 

Scosse la testa,

lento il movimento dondolante,

finale di un sorriso

per sollievo,

riposta rabbia ed unghie,

qual sollievo,

inutile ormai l’uso

e loro scopo.

 

E Cecco,

languido pensier passi davanti,

di sigaretta spento

e tristi occhi.

Difficile ragazzo,

e tenebroso insieme,

tenero,

fuliggine le ossa

e carne in meno,

timor di gesto

e la vergogna

d’emozione;

ira tua

il solo concepir

sentirti accanto.

Merito di can fra buoi

unico il saper di guida

e d’ottima fattura,

vagar riconosciuto

d’anima irrequieta.

Fumar peccato lo spinello;

tu per vana gloria

in angolo nascosto

e già calcato,

diverso sempre

ed uno al dì,

di prova in giorno

a novella facile mostrare,

per capir di stima, inventi,

la famiglia.

 

Di nuovo alzò lo sguardo

a danzar di vista seria

l’uomo ancor presente,

impassibile,

speranza del profondo

in tal momento.

 

Non so spiegar, signore

il mio momento.

Causa, tu,

per dolor tristezza

ed i problemi,

or unica ragion del mio non solo.

Soccombo, adesso,

tributo e dover

per solitudine alleviare

in tua presenza.

Son tuo, sì sia,

di feudo certezza e valvassore.

 

Spiegar non so, signore,

strano il tuo comportamento:

mi guardi, continui,

movimento alcun permesso;

e il non parlare,

rispondere,

il non voler preciso di qualcosa,

oziar d’arma investito

a controllo d’ogni mossa.

Ma allora?

 

Cosa spinge uomo,

gratuita la violenza

ed apparente senza scopo!

Cosa fulmina

guardar fra questi stracci;

il tuo passo

medesimo

e lontano al mio,

situazione strana

di passato sconosciuto;

che ti muove da dentro,

spinta inconcepibile e violenza!

Capisco soltanto

il succeder ripugnante di maniera,

forze dissolte in aria fredda

all’attanaglio;

e tu figura

assumer d’angoscioso aspetto

e più deciso,

giudizio quasi universale,

a condannar per tempo perpetrato,

l’impotenza non più simbolo

ed orgoglio personale.

 

Torno

dischiuso tra quel mondo,

mio signore,

a viver di ricordo conquistato.

Guarda;

le palpebre socchiuse.

 

Guarda;

trascino l’impeto, signore,

a naufragar di mare chiaro

e trasparente.

 

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