IV
Si svegliò improvviso
d’incubo sudato
e tremolante,
vento ghiaccio
in soffio altero sulla pelle.
Respiri,
profondi,
in cerca d’animo e sollievo,
attimi di tregua,
enorme in debole
il vuoto dell’azione,
capace in niente
o membra mosse.
Volti
al basso versi
in odore di silenzio,
gioco oscuro d’impossibile
creduto,
ma speme arcigna
di ripresa rapida
voluta,
sicuro amaro il gusto
per ognuno.
Ancor non torni Maurino
bimbo,
pur in mille viaggi
ritentato,
o nuova manica professa,
in tecnica miracolo
applicato,
a gestir del fallo
il solo rimanere:
sedia in esclusivo
e moto per rotelle,
gonfio,
di gesticolo parola
e poco altro.
Pianto,
tanto,
regalato
a quella madre
d’espression assente,
per solo tormentar
di giorno in giorno.
Ogni annuir tuo
in lacrima mutato,
donna povera,
volta
delicata
in sguardo di presente,
con l’immenso pudor
di soffrire in fette
la tortura;
morte preferir
di cuore e tutti,
a te e per te.
Qual’immagine,
frusta tragica e delirio,
in occhi al riso
sempre
consacrati.
Urgente in corsa,
signore mio,
sentimmo fremiti e bisogno
per liberar
di tanta sofferenza,
in un attimo vissuta e digerita.
Attimi,
sostanze d’altro
che sia niente
e feste in ballo
e sbornie in nuovo,
geometrie a rinchiuder
di locale abuso.
E tutti in massa,
predator d’agonico diverso,
in settima di grigio
la famiglia.
Vi vedo,
mio signore,
in volta preparar d’evento atteso,
gestir d’esubero
lo stronzo privilegio,
in danza liberi
pensato.
Basso prima e dopo
l’opprimer di persona
in forma falsa
percepita,
banal momento ed insincero.
Vi guardo
andar via,
al dentro calpestando
la parola,
in nervi a ribadir concetto
o il solito rifiuto;
fuggite,
estraneo allontanar
di malinconico sorretto
e mani in tasca,
mostrar di pungo alcuno
la serrata.
Ultrasuono
a sensi umani,
il solo richiamar
dell’occasione.
Ecco signore;
lago d’auto in piazza,
e colori a risplender di lunare,
in riflesso d’irreale
avvolti,
l’atmosfera.
Raggi in sol di primo arrivo,
a portanza varia in lungo
da radice,
piccole vie e viottoli, sentieri,
metallici costrutti
in global villaggio
di futuro,
a snodar da cui
commenti
e nuove in convinzione,
eccitato cuore
di probabile imminente;
intenzion d’arguto
ritentare,
sincero di fu
memore raggiunto.
Scaldati cuor,
ballando in strada
note fede e ben diritto;
pettina il sorriso
o sgualcia le indumenta
a donar selvaggio senso
in femmina
prospetto.
Rintocca molesta la campana;
musica
a confonder preda unica
in safari;
e il sorpreso cacciator di volta,
branco piccolo
al passo transitato,
d’improvviso ferma
in statua degno
a mostra,
per stormo in ver di raro
conosciuto.
Mio signore;
vi guardo
giostrar di carte false
in brutta copia,
e d’inutile
convinto.
Ma pensier in fondo
attira
di limite recesso
e inibizione,
dimentico,
dannoso,
posseder d’angoscia forma
e strinto pugno.
Sciocca emozione,
sentirsi primo in attimo,
campione, grande,
sguardo basso
estraneo momento,
e mille vaffanculo.
Pronti, mio signore,
fier di logico disposto
o per scempio condannato,
ognuno,
lontano il verbo ad impression
sottrarre.
Chiusura d’ultimi sportelli
annuso dal mio mondo,
Ale, dai!
spronato in mucchio
il Capo,
dall’effimero in risucchio
per global coinvolgimento
eterogeneo;
và, formal deluso,
col neo di strana
e inusual sconfitta,
piano in moto
a rimprovero sembrare,
improvviso poi,
dimentico,
allo scatto.
Io guardo,
trapassar di gusto inverso
ed opinione,
viva la presenza
ed importante,
occhi,
mai convinto,
scomparire.
Riman
città,
lento incamminato,
deluso in solo e controvoglia;
panchine, lampioni
ricordo in stacco ed il momento,
effetto a strugger
d’abbandono assurdo
concepito;
riman d’orologio e campanile,
mezzanotte.
Triste, mio signore,
perduta sensazione e qual momento,
lontani,
in ver di suscito
mancato.
Davver lontani, giorni.
Or m’accorgo
di fredda roccia seduto
e spigolosa,
destin ignoto
e in lor balia.
E ti chiedo, mio signore,
il successo fin’ad ora,
qual sorte di ricordi
e immagini inghiottite,
pensier sofferti
e malinconici,
eclissi,
mai esistiti
in quotidian bagaglio
appresso.
Da sempre.
La testa impose
a calici di man avvolta,
mento di peluria
irto,
e gravità ;
dita in carezza d’occhi
e rughe nei contorni,
mignoli in punta al naso
per toccare.
Un naso strano,
grande e trasformato.
Strano mio signor
di naso grosso e forme,
e queste mani,
or rigide e callose,
io,
altrui invidia
per voglia di cultura
e strada scelta,
nobile pur dura
e doman fruttuosa.
Mai callo in mano,
per Cecco ed altri
orgoglio
e quasi sprone,
studiar diletto
in povero presente!
Alzò gli occhi
ad uomo fronte
e calmo in volto.
Mirò paziente
adesso empito in fede
d’aspettare
e sospirando;
occhi puntati alla figura,
scarpe insipide ed oscure,
sporche in fango e noncuranza,
di verde immerse
e graffi ovunque;
e giacca in scuro,
maglia in scuro,
bene in tono
a tenebroso aspetto;
uomo normale, però;
normale,
seppur di nero dominante
ed arma in mani.
Baffi, mio signore,
in padre mio
e lo sguardo;
dita tozze e in ruga calpestate,
carezzar di pelo sporco
la bevuta;
o il pensar che solito attanaglia
baffo e mente concentrata,
in tavolo seduto
alla cucina.
Afferrar d’inferio labbro,
destro il lato della bocca,
e non riuscire;
destra allora alzar di mano
lenta ancora,
di filosofo improvviso
affusolar d’estremo pelo,
baffi,
in roteo dondolar
di grosse dita.
Delicata mossa in vero,
scandito il ritmo
da fallito intento,
così per ore
e concentrato.
Dove sei padre mio,
signore;
Ti vedo,
ricordo d’alba
in prima estate,
ventura di final incontro
allor com’ora.
Vizio infetto
il dormir di caldo afoso
nella piccola fessura,
la stanza,
in un quartier di case in popolo
riempite;
finestra
alcuna,
caldo,
o presa d’aria
in quale specie,
a limitar di bestia ogni sopporto;
piccola stanza,
basso il soffitto,
roseo il color di cupa mano;
e nudo in complici lenzuola
rigirar di letto appiccicoso,
animale in succhio
d’energia.
Via il cuscino,
caldo,
ripreso a ritirar
di pace in debito
e snervato,
agonico vagar
per notte cronica.
E sol finestra in stanza grande,
per grandi ed uomini
miei avi;
non grande, non bella,
in luce verde,
prato,
dietro casa.
Amico
il sol mattino,
e can riuniti
il piccolo, il gigante, il bassotto,
sognar in fin
di spicchia luce,
desti avi alla buon ora;
immobile,
ancora d’anima sfiancato,
in letto immenso
e sconfitta solitudine
per vista,
amici miei.
Onor di voi a momenti,
in luce debole conforto:
alba,
tregua finalmente,
notturna pugna andata
e finalmente;
piccoli amici,
tenero vibrar
di sensi attorno.
Ecco,
rumor di passo alzato
e cigolìo di scarpa
altisonante;
corro amici,
signore;
Muro di bestemmie
Padre mio,
da severo in cuccia rispedito,
e d’ombra avvolto;
perché?
Obbedisco padre mio;
Obbedisco.
Confuso silenzio
in nuova tenebra calata.
E strano sentir
di centrifugo partire;
tu,
padre mio.
Piango, mio signore;
singhiozzo pene ed i timori
in misero abbraccio
di cuscino.
E per molto ed or
pur senza lacrime
e apparenza,
in lutto amar
di giovane sofferto;
fredda roccia,
aspro odor
di mesto ieri.
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