Luca Delle Site

Contemporaneamente, poesia d'autore

 

 

Piero

 

 

 

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IV

 

 

Si svegliò improvviso

d’incubo sudato

e tremolante,

vento ghiaccio

in soffio altero sulla pelle.

Respiri,

profondi,

in cerca d’animo e sollievo,

attimi di tregua,

enorme in debole

il vuoto dell’azione,

capace in niente

o membra mosse.

 

Volti

al basso versi

in odore di silenzio,

gioco oscuro d’impossibile

creduto,

ma speme arcigna

di ripresa rapida

voluta,

sicuro amaro il gusto

per ognuno.

 

Ancor non torni Maurino

bimbo,

pur in mille viaggi

ritentato,

o nuova manica professa,

in tecnica miracolo

applicato,

a gestir del fallo

il solo rimanere:

sedia in esclusivo

e moto per rotelle,

gonfio,

di gesticolo parola

e poco altro.

Pianto,

tanto,

regalato

a quella madre

d’espression assente,

per solo tormentar

di giorno in giorno.

Ogni annuir tuo

in lacrima mutato,

donna povera,

volta

delicata

in sguardo di presente,

con l’immenso pudor

di soffrire in fette

la tortura;

morte preferir

di cuore e tutti,

a te e per te.

 

Qual’immagine,

frusta tragica e delirio,

in occhi al riso

sempre

consacrati.

Urgente in corsa,

signore mio,

sentimmo fremiti e bisogno

per liberar

di tanta sofferenza,

in un attimo vissuta e digerita.

Attimi,

sostanze d’altro

che sia niente

e feste in ballo

e sbornie in nuovo,

geometrie a rinchiuder

di locale abuso.

E tutti in massa,

predator d’agonico diverso,

in settima di grigio

la famiglia.

 

Vi vedo,

mio signore,

in volta preparar d’evento atteso,

gestir d’esubero

lo stronzo privilegio,

in danza liberi

pensato.

Basso prima e dopo

l’opprimer di persona

in forma falsa

percepita,

banal momento ed insincero.

Vi guardo

andar via,

al dentro calpestando

la parola,

in nervi a ribadir concetto

o il solito rifiuto;

fuggite,

estraneo allontanar

di malinconico sorretto

e mani in tasca,

mostrar di pungo alcuno

la serrata.

Ultrasuono

a sensi umani,

il solo richiamar

dell’occasione.

 

Ecco signore;

lago d’auto in piazza,

e colori a risplender di lunare,

in riflesso d’irreale

avvolti,

l’atmosfera.

Raggi in sol di primo arrivo,

a portanza varia in lungo

da radice,

piccole vie e viottoli, sentieri,

metallici costrutti

in global villaggio

di futuro,

a snodar da cui

commenti

e nuove in convinzione,

eccitato cuore

di probabile imminente;

intenzion d’arguto

ritentare,

sincero di fu

memore raggiunto.

Scaldati cuor,

ballando in strada

note fede e ben diritto;

pettina il sorriso

o sgualcia le indumenta

a donar selvaggio senso

in femmina

prospetto.

 

Rintocca molesta la campana;

musica

a confonder preda unica

in safari;

e il sorpreso  cacciator di volta,

branco piccolo

al passo transitato,

d’improvviso ferma

in statua degno

a mostra,

per stormo in ver di raro

conosciuto.

 

Mio signore;

vi guardo

giostrar di carte false

in brutta copia,

e d’inutile

convinto.

Ma pensier in fondo

attira

di limite recesso

e inibizione,

dimentico,

dannoso,

posseder d’angoscia forma

e strinto pugno.

 

Sciocca emozione,

sentirsi primo in attimo,

campione, grande,

sguardo basso

estraneo momento,

e mille vaffanculo.

 

Pronti, mio signore,

fier di logico disposto

o per scempio condannato,

ognuno,

lontano il verbo ad impression

sottrarre.

Chiusura d’ultimi sportelli

annuso dal mio mondo,

Ale, dai!

spronato in mucchio

il Capo,

dall’effimero in risucchio

per global coinvolgimento

eterogeneo;

và, formal deluso,

col neo di strana

e inusual sconfitta,

piano in moto

a rimprovero sembrare,

improvviso poi,

dimentico,

allo scatto.

 

Io guardo,

trapassar di gusto inverso

ed opinione,

viva la presenza

ed importante,

occhi,

mai convinto,

scomparire.

Riman

città,

lento incamminato,

deluso in solo e controvoglia;

panchine, lampioni

ricordo in stacco ed il momento,

effetto a strugger

d’abbandono assurdo

concepito;

riman d’orologio e campanile,

mezzanotte.

 

Triste, mio signore,

perduta sensazione e qual momento,

lontani,

in ver di suscito

mancato.

Davver lontani, giorni.

 

Or m’accorgo

di fredda roccia seduto

e spigolosa,

destin ignoto

e in lor balia.

E ti chiedo, mio signore,

il successo fin’ad ora,

qual sorte di ricordi

e immagini inghiottite,

pensier sofferti

e malinconici,

eclissi,

mai esistiti

in quotidian bagaglio

appresso.

Da sempre.

 

La testa impose

a calici di man avvolta,

mento di peluria

irto,

e gravità ;

dita in carezza d’occhi

e rughe nei contorni,

mignoli in punta al naso

per toccare.

Un naso strano,

grande e trasformato.

 

Strano mio signor

di naso grosso e forme,

e queste mani,

or rigide e callose,

io,

altrui invidia

per voglia di cultura

e strada scelta,

nobile pur dura

e doman fruttuosa.

Mai callo in mano,

per Cecco ed altri

orgoglio

e quasi sprone,

studiar diletto

in povero presente!

 

Alzò gli occhi

ad uomo fronte

e calmo in volto.

 

Mirò paziente

adesso empito in fede

d’aspettare

e sospirando;

occhi puntati alla figura,

scarpe insipide ed oscure,

sporche in fango e noncuranza,

di verde immerse

e graffi ovunque;

e giacca in scuro,

maglia in scuro,

bene in tono

a tenebroso aspetto;

uomo normale, però;

normale,

seppur di nero dominante

ed arma in mani.

 

Baffi, mio signore,

in padre mio

e lo sguardo;

dita tozze e in ruga calpestate,

carezzar di pelo sporco

la bevuta;

o il pensar che solito attanaglia

baffo e mente concentrata,

in tavolo seduto

alla cucina.

Afferrar d’inferio labbro,

destro il lato della bocca,

e non riuscire;

destra allora alzar di mano

lenta ancora,

di filosofo improvviso

affusolar d’estremo pelo,

baffi,

in roteo dondolar

di grosse dita.

Delicata mossa in vero,

scandito il ritmo

da fallito intento,

così per ore

e concentrato.

Dove sei padre mio,

signore;

 

Ti vedo,

ricordo d’alba

in prima estate,

ventura di final incontro

allor com’ora.

Vizio infetto

il dormir di caldo afoso

nella piccola fessura,

la stanza,

in un quartier di case in popolo

riempite;

finestra

alcuna,

caldo,

o presa d’aria

in quale specie,

a limitar di bestia ogni sopporto;

piccola stanza,

basso il soffitto,

roseo il color di cupa mano;

e nudo in complici lenzuola

rigirar di letto appiccicoso,

animale in succhio

d’energia.

Via il cuscino,

caldo,

ripreso a ritirar

di pace in debito

e snervato,

agonico vagar

per notte cronica.

E sol finestra in stanza grande,

per grandi ed uomini

miei avi;

non grande, non bella,

in luce verde,

prato,

dietro casa.

Amico

il sol mattino,

e can riuniti

il piccolo, il gigante, il bassotto,

sognar in fin

di spicchia luce,

desti avi alla buon ora;

immobile,

ancora d’anima sfiancato,

in letto immenso

e sconfitta solitudine

per vista,

amici miei.

Onor di voi a momenti,

in luce debole conforto:

alba,

tregua finalmente,

notturna pugna andata

e finalmente;

piccoli amici,

tenero vibrar

di sensi attorno.

 

Ecco,

rumor di passo alzato

e cigolìo di scarpa

altisonante;

corro amici,

signore;

 

Muro di bestemmie

Padre mio,

da severo in cuccia rispedito,

e d’ombra avvolto;

perché?

Obbedisco padre mio;

 

Obbedisco.

Confuso silenzio

in nuova tenebra calata.

E strano sentir

di centrifugo partire;

tu,

padre mio.

 

Piango, mio signore;

singhiozzo pene ed i timori

in misero abbraccio

di cuscino.

E per molto ed or

pur senza lacrime

e apparenza,

in lutto amar

di giovane sofferto;

fredda roccia,

aspro odor

di mesto ieri.

 

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