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II
Un caffè.
Mai basso abbastanza
per lotta giustifizio
col testone,
di Giovan nomignolo in famiglia.
Dotato in vero
da natura madre
per cranica e notevole capienza,
ma unico modo
in alcun forse
per trasmetter poi
pallidi affetti,
corrotto era,
e non il solo,
di comunico d’oltre limitato
al vaffanculo fra gli amici.
Grande famiglia
e bella in questo;
gioiosa, sincera, oltraggiosa:
fra uomini
d’unisono creduto ed ostentato.
Perchè sfuggire.
E reale il niente
ben concluso,
niente filtrar
dovuto mai
al di fuori della gabbia.
Non con la famiglia,
mio signore;
unico il posto
per dimenticar concesso,
tutto;
ridere, ridere;
ridere e basta,
a problema e angoscia
spazio e tempo altrunque
dedicati.
Lontano il vero.
Il Cecco arriva
adesso per un sempre
ripetuto,
carico in fardello
di occhi stanchi e rassegnati,
mani sporche di calcina,
Marlboro almeno
a non tradir le tasche.
Fermo,
sulla porta,
d’improvviso attratto
in strano o di speciale,
inusuale e misterioso
quasi in fascino riempito,
viso, occhi,
espressione assunta.
Risa d’altre labbra,
e conati e smorfie trattenute
attorno,
sguardi a tonar di scoppio
insegna
e logico presagio.
Irresistibile l’effetto
in fragor allegro e derisorio,
facile scoreggia al culto
d’infedeli.
Attenzione infin scoperta
d’arcana macchina carpita,
nera,
rilento il moto e nervi
al bar davanti.
La bionda,
grido fier d’alcun motivo,
nota fantasia
d’irraggiungibile e playboy:
in certo
lì passata
a goder di fuori dubbio
in tua presenza.
E tu, Cecco,
cercar di tua
per tutti
convinzione.
Giorni d’abbondanza,
d’allegro spinta
ed impeto degli anni,
astinenza
ignota la parola!
Riesumi, rimpiangi,
tranquillità
momento
ed altro senso.
Incendia il tempo,
a lasciar favilla incura
e malinconia deprime
in gioia
e con fervore.
Adesso,
tranquilla ragazza
e buona
in sogno,
donar fiducia e affetto
ovunque inconquistati,
sbagliati i momenti e le persone.
Siedi Cecco,
solito giacere,
maligno sorriso sulle labbra
a vestir di consapevole
il peccato.
T’illudi,
inosservato.
Sigaretta,
imbarazzo,
lento ed esitante;
con squallida e nociva tosse
la saluti,
gli occhi fissi
in orda di pensier
confusi
o macchia, il tavolino.
Così la tua presenza,
richiesta
non partecipe;
non parole,
familiar decreto assunto;
niente,
importante;
se non d’acre
l’odor ed il giubbotto,
dote in guisa
a naturale.
E di pena mera
in fondo spinto,
a volte il semplice curioso
al verbo ti incitava
per assaporar di quale voce,
pur caldato nell’offesa
ed inquisendoti di tutto,
solitudine permeata,
in compagnia.
Per poi lasciarti in nuovo
scarso
perduto in occhi languidi e fissati,
d’attimo uno
sol passato.
E processi,
sommari intenti
a soluzione di mistero,
mummificazione abnorme
e non sottile.
Colpa d’altra anagrafe
bastarda,
rea di oppresso e troppo zelo:
troppo.
Conclusione,
mai d’appello successivo
contrariata,
nè parole a scomodar motivo
da nessuno.
Nota eppur
la sensazione e il vuoto,
io,
voce in tappo
e istinto tramortito,
pervaso a tratti,
a momenti;
or sano e tranquillo,
ora fuor di logica
in comune.
Triste destino,
profonda ferita,
sentir costante in vago,
estraneo di sincero
in slancio
ed oltre.
Staccò di colpo
trasportato da metallico rumore,
incontrastabile energia,
lontano,
a carpir di mente
ed interesse.
Breve sbandamento,
a chieder dei dintorni
e d’ombra d’uomo,
buio e vegeto
risposto,
incombente il vuoto
e privo in senso.
Di giro in giro
al tempo,
signore sconosciuto,
e d’abitudini tranquille,
acuto assente
e flessi oppure.
Se non di triste
fila d’auto
un giorno,
colonna di silenzio
immobile e paziente;
la strada in blocco,
attesa,
Ale mio
e l’altro e tutti.
Qual silenzio,
fila, fila,
noia e fumo
in nuvola costretti d’alma
e dimensione.
Nessun reazione,
d’arpion forzati
ed insolito pensiero;
lontan da buon augurio,
il tardo risalir
di gente in massa.
Accidente
logico il previsto
ad ostruir di carreggiata;
genti,
folle marciapiede,
disposte
tetro in capannello,
muto l’animo
a timor sentore
in tutti grave
di qualcosa.
“Vespa”
ti scorgo,
oscuro il nesso;
e polverosa scarpa,
cupa,
angustìo d’animo
profondo,
d’illogico destino
abbandonata,
ancor di testimone invinta
a normal vitalità
recente.
Violento incastro di sentir
e ferro,
impatto
abuso d’energie
patito,
vigile il timor
d’effetto noto.
Grave cadenza
chi parlò,
ed unico per tutti.
Pianto in occhi
consumati,
e vecchi ciondolanti
pallidi,
tremanti,
ad imprecar di grida sorde
e cielo maledetto.
Urla.
Urla dedite a sconfitta.
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